Cultura
Thomas Mann: rileggendo “La morte a Venezia”

A 150 anni dalla nascita (1875) e 70 dalla morte (1955) di Mann, è bello recuperare questo piccolo gioiello della letteratura decadente, pubblicato nel 1913. Il noto scrittore Gustav von Aschenbach si reca a Venezia per ridare vita all’ispirazione. Incontra un bel giovane polacco, Tadzio, e ne resta affascinato. Il suo animo è turbato dalla lotta tra l’aspirazione eroica della perfezione e autocontrollo e la preferenza (tipica dell’età decadente) per l’amore ambiguo e dissoluto. La bellezza è la via dell’artista verso lo spirito, ma allo spirito si arriva attraverso i sensi o questa via porta allo smarrimento? Il cammino della bellezza non può prescindere da Eros, sicché il poeta non può non essere dissoluto avventuriero del sentimento, né può essere educatore se è attratto dall’abisso. Scoppia il colera, ma non parte e sogna di rimanere solo con Tadzio, che infine gli appare dall’acqua come un dio misterioso che lo chiama. Tenta di raggiungerlo, ma si accascia su un fianco, vinto dal male.
IL TRAVAGLIO DI UNO SPIRITO
Novella o romanzo breve? E se fosse anche un saggio sulla bellezza, sul valore estetico come forza di trascinamento e fonte di ispirazione? Il Nostro è uno scrittore arrivato che osserva, dall’alto dei suoi 50 anni, il mondo brulicante intorno a lui, dispensando insegnamenti morali, certezze e fedi incrollabili.
All’Hôtel des Bains un incontro occasionale risveglia nel suo spirito maturo un “desiderio giovanile di avventure e di lontananze”. È come folgorato dalla bellezza, visione di cui non riuscirà più a liberarsi, ma che anzi lo conquisterà sempre più, fino a fargli perdere la dignità di uomo. La sua ispirazione, che si era inaridita, si risveglia. Gli basta sentire la presenza di Tadzio per far risplendere la nobile e vibrante energia della sua prosa; “strano e fecondo accoppiamento dello spirito con un corpo”.
Ma egli è uomo di cultura e vede, almeno per ora, in quel corpo il supremo disegno di Dio, che “per renderci visibile l’astratto (la bellezza), si serve della forma e del colore della giovinezza umana”. E lui stesso non era forse artista e creatore quando “liberava dal blocco marmoreo del linguaggio la forma snella che aveva visto con lo spirito e che presentava agli uomini come specchio e immagine della bellezza spirituale?”.
Dunque anche saggio su bellezza, incantamenti, perfezione, con frequenti riferimenti alla classicità greca. Avverte tuttavia che qualcosa è mancato finora alla sua formazione austera. Sicché deve continuare il viaggio che ha svelato l’ansia di trasgressione soffocata dal grigiore della razionalità. È quello che Bertrand Russell (Storia della filosofia occidentale) definisce elemento bacchico: la passione che spazza via la prudenza, l’ebbrezza che è una componente di molte conquiste umane. Ecco perché “è certamente un bene che il mondo conosca soltanto l’opera bella e non le sue origini, le condizioni e le circostanze; giacché la conoscenza delle fonti dell’ispirazione dell’artista potrebbe turbare, spaventare, e così annientare gli effetti della perfezione”. Lo scrittore affermato scopre così che la torre d’avorio del suo intelletto è costruita sulla sabbia ed è la scoperta della bellezza fisica a farla vacillare. L’abisso lo attrae ed egli si lascia tentare, rinnegando persino quella funzione di educatore che, in occasione del 50° compleanno, gli era valso il titolo di von. In questa china lo sospingono anche gli eventi. Il segreto che l’autorità mantiene sul colera è collegato al segreto che circonda il suo sentimento, e quando la notizia del colera è ormai di dominio pubblico, si affaccia nella mente il pensiero di una gioia insana per la partenza di tutti che lo lascerebbe solo con Tadzio. Trarrebbe così dal caos una mostruosa dolcezza che gli farebbe rinnegare il suo passato dedicato all’arte e alla virtù.
Il processo è irreversibile, anche se non manca qualche momento di lucidità in cui cerca di rendersi conto della situazione che lo sta travolgendo. Ma si tratta di rari bagliori ai quali dà persino una giustificazione intellettuale. Il Nostro cade, sapendo di cadere. E quanto più esalta l’immagine estetica del giovane, tanto più scende a livelli infimi, affidandosi al trucco posticcio e grottesco. Sono passate poche settimane, e ha già dimenticato la ripulsa provata quando ha incontrato sul battello quel vecchio ringiovanito con cosmetici, in compagnia di giovani. Ed ora eccolo lì il nostro eroe, accasciato sui gradini di un pozzo. L’aquila robusta che volteggiava in spazi superiori, orgogliosa delle sue certezze e conscia della sublime missione educatrice, è ora mortalmente ferita, disorientata, smarrita. Sullo sfondo grandeggia invece Venezia, l’ambiente umano e naturale dove convivono decadenza e splendore, legati inestricabilmente da un mistero insolubile. Lui, affaticato e malato, raccoglie le forze residue per raggiungere un punto indefinito che gli viene indicato da Tadzio, nelle sembianze di un dio misterioso associabile a Hermes. Tutti sono partiti per sfuggire al colera. Per lui è un viaggio senza ritorno, la via dell’oltretomba, il regno dei morti e della pace.
“LA MORTE A VENEZIA” E IL SUO TEMPO
È opera del decadentismo, con bellezza e morte, crisi del positivismo e ricerca di nuovi valori, crisi della borghesia e difficile approdo a un nuovo assetto sociale.Le certezze della vecchia borghesia, alimentate dalla fiducia nella scienza, appartengono al passato. Oggi il meccanismo si è inceppato e Aschenbach, al top della considerazione sociale, scopre che non ha più nulla da dire.
Cercherà lontano dal suo ambiente una nuova linfa per la sua musa, non considera chiusa la ricerca della bellezza, ma è già morto e non lo sa. Il gondoliere pirata che lo traghetta è il novello Caronte che lo porta all’oltretomba, dove la bellezza di Tadzio, gli darà un’occasione di rinascita, una nuova fiamma che brucerà gli sterpi della sua precedente formazione austera e formale, basata sul dominio della ragione sul sentimento.La fiamma brucerà di una luce intensa, nell’esaltazione di una bellezza mitologica, fuori dal mondo, ai margini col divino; rapporti tra bellezza e divino che solo il suo spirito colto e raffinato può cogliere.Fiamma che brucerà un’impalcatura che si riteneva solida, ma che non approderà che alla morte, questa volta fisica; una ricerca disperata ed illusoria, che approda nel vuoto, nel nulla.
Lo sfondo non può che essere Venezia, col fascino ambiguo di bellezza e morte. Con la sua morte a Venezia è qui che Aschenbach lascerà traccia della lotta tra il desiderio eroico di perfezione e l’amore decadente del dissoluto.
THOMAS MANN E VENEZIA
È affascinato da Venezia, ma il suo vero amore è più per il passato artistico e musicale. Ha ancora il fascino dell’incomparabile, del fiabesco, ma oggi è sporca e il tedesco Mann lo rimarca; è amministrata da autorità che per interesse di bottega, dissimula l’epidemia che incombe; è infestata da trabocchetti per i forestieri e da una genìa di personaggi (antiquario imbroglione, questuanti musicanti persino in acqua, venditori in spiaggia, gondolieri collegati con merlettai e vetrai) che determina la “venalità rapace della decaduta regina”. Ma Venezia, pur nell’atmosfera cupa e livida di decadenza e morte, è magica nelle sue aurore che stemperano anche i tormenti più antichi, è irripetibile nel suo mezzo di trasporto tipico, è unica quando si presenta a chi viene dal mare in tutto lo splendore del complesso monumentale, che si apre al di là delle colonne col Leone e col Santo. Venezia è affascinante ed enigmatica anche nella malinconia dei palazzi un tempo splendidi e ora corrosi dall’acqua e abbandonati. È languida, torpida e allenta la volontà di lavorare anche in chi, come Aschenbach, ha un’idea religiosa del lavoro. Qui si ambienta bene una vicenda decadente, che parla del disfacimento di uno spirito che si riteneva incrollabile, in un’atmosfera di disfacimento del corpo determinato dall’epidemia. E il parallelo percorre sotto traccia tutta la vicenda. Il sentimento di Aschebach è prima tenuto dignitosamente nascosto, come le avvisaglie dell’epidemia, degenera rapidamente verso la perdita di dignità, come il morbo che dilaga, e giunge alla conclusione fatale come il colera che esplode violento.
IL FILM DI VISCONTI
Visconti è un grande regista, ma al testo di Mann si avvicina con umiltà (1971). Il suo scopo è rendere la trasposizione filmica nella maniera più fedele, a volte fino alla pignoleria. Rigorosa è anche la sceneggiatura ripresa dal discorso indiretto che Mann predilige.
Per il resto, si percepisce la mano di un altro innamorato di Venezia; lo si vede dalla cura degli scorci, dalle inquadrature che richiamano ad autentici dipinti. Non si tratta, però, di oleografia, di calligrafismo, perché quando è necessario affonda le riprese nei mali profondi della laguna, nei calli stretti e maleodoranti, nell’ umanità dolorante. Una piccola libertà: nel film Aschebach non è scrittore, ma musicista. Interpretazione maiuscola quella di Dirk Bogarde. Il libro descrive un tipo di statura inferiore alla media, con testa grande su un corpo quasi gracile. Visconti presenta un tipo longilineo e giovanile e la scelta non è casuale, perché ne risulta accentuata la gravità della caduta e si ha l’impressione che avvenga da un piedestallo più alto.
Dulcis in fundo, la ciliegina è la colonna sonora. Echeggiano qua e là le note pianistiche di Chopin, omaggio alla Polonia di Tadzio, ma la scelta più significativa si riferisce all’Adagietto della quinta sinfonia di Mahler, che sottolinea i momenti di più intenso raccoglimento. La scelta, ovviamente, è precisa. La sinfonia fu composta agli inizi del secolo, qualche anno prima che Mann scrivesse il libro e non poteva essere estranea al clima culturale del momento. Il decadentismo musicale di Mahler disgrega la tradizionale struttura sinfonica, proporzionata e rigorosa, assumendo dimensioni irregolari, abnormi, per adeguarsi alla realtà. Superate le formule razionali di ispirazione idealistica, si caratterizza per l’immediatezza dell’ispirazione nel tentativo di riprodurre il caos dei tempi nuovi che incalzano.
Nel contesto del sinfonismo di Mahler la stessa quinta sinfonia segna una linea di demarcazione rispetto alle precedenti composizioni. Visconti, tuttavia, sceglie questo Adagietto per sottolineare, anche con la musica, l’ambiguità che permea il libro, il film e Venezia: bellezza e morte, ragione e istinto che si esprimono qui nei contrasti di un dolce tormento, di un’appagante tristezza, ma ricomposti in un intimo languido raccoglimento, in una struggente malinconia, fino a giungere all’acme di una contemplazione estatica in un’oasi di trasfigurato lirismo.