Cutro la strage dei deportati

Per comprendere lo strazio non serve il discernimento politico. Quello viene dopo. E per essere serio, efficace, sincero, dev’essere deideologizzato e scevro delle strumentalità di parte. Davanti a quei corpi allineati sotto i lenzuoli bianchi della spiaggia di Steccato di Cutro, possono parlare solo le lacrime. E non si riesce nemmeno lontanamente a capire cos’hanno vissuto in mare quei povericristi. Come faccio a capire io la testimonianza di quel ragazzo afghano di 16 anni scappato da Kabul insieme alla sorella di 28 anni la cui vita era resa impossibile dai talebani che, in forza del loro strapotere esercitato con la forza del terrore, la usavano e la abusavano? «Quando mamma e papà lo hanno capito, hanno convocato tutta la famiglia – racconta il ragazzo all’inviato de La Stampa –, insieme hanno raccolto i soldi dai parenti. Dopo una lunga riunione, hanno deciso che saremmo partiti insieme: io e lei. Eravamo seduti vicini su quella barca. E quando la barca si è schiantata e capovolta, siamo finiti nel mare insieme. Abbiamo usato le onde per arrivare a riva. Ma sulla spiaggia lei non respirava più».

Per cercare di capire il sapore amaro della deportazione bisogna dare un volto alle vittime, mettersi in ascolto delle storie.

Quando gli portano un telefono per avvisare i suoi genitori non ha il coraggio di dire di sua sorella. Ha detto che era rimasta ferita ed era ricoverata in ospedale. Ma perché chi è perseguitato non deve poter prendere un aereo e chiedere asilo politico in un Paese democratico? Quale crudeltà è mai quella di poter anche solo immaginare che chi è perseguitato in patria deve esserlo anche dalle leggi ingiuste di altre nazioni? Ha ragione Luigi Ciotti: «Bisognerebbe smetterla di chiamarle migrazioni: sono deportazioni indotte! Nessuno lascia di sua spontanea volontà gli affetti, la casa, affrontando viaggi rischiosi in mano a organizzazioni criminali e in balìa degli eventi atmosferici. Lo fa solo perché costretto da un sistema economico intrinsecamente violento, sistema che colonizza, sfrutta e impoverisce vaste regioni del mondo». Ma noi non possiamo capire. Non possiamo capire lo strazio del profugo siriano arrivato trafelato dalla Germania all’ospedale di Crotone. È avvinghiato strenuamente al filo di speranza di trovare la moglie tra i feriti. Aveva ricevuto l’ultima chiamata alle 4 di notte. Era preoccupata dalla forza delle onde ma fiduciosa perché ormai si vedevano le luci dell’Italia. Sua moglie è tra i morti che sono stati identificati. Quelli per i quali il cimitero di Cutro non ha posti sufficienti e ha dovuto chiedere alle città vicine. Sì, per cercare di capire il sapore amaro della deportazione bisogna dare un volto alle vittime, mettersi in ascolto delle storie. Come quella di un altro «deportato». In Afghanistan lavorava proprio per i militari italiani. Per questo ora anche lui era in pericolo e ha deciso di rischiare la traversata con la moglie e i figli di 13, 11, 9 e 5 anni. Sono sopravvissuti solo lui e il figlio di 13 anni. Ora continua a raccontare la dinamica del naufragio perché non si perdona di essere vivo e ripete che non ha potuto fare di più. Noi invece sì. Avremmo potuto. Non l’abbiamo fatto.