Studenti, occupazioni, manifestazioni, che sta succedendo?

Cattedre distrutte, fili elettrici tagliati, computer danneggiati, bagni inagibili. Vandalizzare un bene pubblico come la scuola non è effervescente trasgressione giovanile, e neppure protesta o provocazione politica. Per farla corta, non dovrebbe succedere. Tanto meno nelle occupazioni che per lunga tradizione sono il modo degli studenti per dire collettivamente ciò che li fa star male, che li offende, che sentono ingiusto, che vorrebbero cambiare: della scuola, del mondo, forse anche di se stessi. E invece qualche volta finisce che a lasciare il segno non sono le parole ma i lavandini sradicati e i vetri rotti. Non capita sempre, per fortuna, non in tutte le occupazioni. I 70.000 Euro di danni all’istituto Correnti-Severi di Milano e i 100.000 Euro all’istituto Giorgi-Wolf di Roma sono casi rari. Bastano però a scatenare nell’opinione pubblica e anche nel mondo della scuola una folla di cattivi pensieri. Non è vero che i ragazzi sono più capaci degli adulti di rivelare che il re è nudo, non è vero che le loro lotte o proteste bisogna ascoltarle e prenderle sul serio, era meglio quando scuola e famiglia sapevano tenerli al loro posto. E poi, in che mondo vivono questi ragazzi, anzi in che mondo viviamo tutti noi se non c’è rispetto neppure per la scuola, il bene pubblico per eccellenza, la linea gotica della nostra civiltà?

Chi rompe paga

Così tutti o quasi ritengono che non ci sia altro da fare che fargliela pagare. Nel senso letterale del termine. Addebitando a loro, quindi alle famiglie, i costi delle pulizie straordinarie, della cancellazione delle scritte, del ripristino di ciò che è stato danneggiato. Anche a scuola chi rompe paga. Può essere interpretata come un deterrente o come un modo per indurre le famiglie a un qualche intervento preventivo, ma è in fondo una regola semplice e di buon senso da utilizzare per far crescere la responsabilità dei ragazzi. Finora però è stato molto difficile attuarla. Di solito i genitori si rifiutano appellandosi in punta di diritto al principio per cui la responsabilità di una colpa è sempre individuale, al fatto che nelle occupazioni non si sa mai chi in quel momento c’era o non c’era, alla possibilità e perfino all’indubitabile certezza che a compiere il misfatto quel pomeriggio o quella notte siano stati degli «esterni» , venuti chissà da dove e chissà da chi chiamati a combinare quello che ai loro innocenti figli non sarebbe mai venuto in mente. Ci sono stati ricorsi, avvocati, pronunce dei Tar. Solo in qualche caso nelle scuole si è riusciti dai dirigenti a suscitare quell’«alleanza educativa» con le famiglie di cui tanto di parla. Se i danni sono modesti, poche centinaia di Euro, si fa di solito ricorso al fondo di istituto che raccoglie i contributi volontari. Se sono più ingenti, a pagare sono gli enti locali proprietari e responsabili degli immobili, quindi i cittadini che pagano le tasse, anche quelli che non hanno avuto la possibilità di andare a scuola fino a 18 anni, anche quelli che non ci hanno potuto mandare i loro figli, una vera ingiustizia. Bisognerebbe far passare l’idea, prima di tutto tra i genitori, che pagare i danni e consentire che i figli collaborino a ridurli – ripulire, cancellare le scritte, rimettere in ordine, aggiustare – è un bagno di realtà, e un esercizio di responsabilità. Pagare in denaro sonante, dedicare tempo e lavoro, provare di persona (e insieme, occupanti e non occupanti) a ridurre il danno, è di sicuro educativo. Più dei predicozzi moralistici che lasciano il tempo che trovano, meglio della solita lezione sulla Costituzione (e relativa «verifica») che ha come primo e forse unico effetto quello di ridurre studio e apprendimento a punizione. A Roma, anni fa, in un caso particolarmente grave si inventò qualcosa di più, l’incontro degli studenti con il responsabile dell’azienda incaricata dei lavori che dette conto, capitolato alla mano, dei tempi e dei costi delle opere da fare, dei materiali da sostituire, delle tecniche e degli strumenti da usare, dei problemi di sicurezza da superare quando, in corso di anno scolastico, si deve intervenire a «scuole piene». Una rivelazione per ragazzini che hanno la testa solo sui prezzi dell’ultimo modello di smartphone, del piumino e delle scarpe di marca, che ignorano il costo pubblico della loro istruzione, che del lavoro sanno poco o niente. Mettergli in mano spazzoloni e pennelli, ragionare dei costi dei danni e di chi mette a disposizione le risorse necessarie può essere più complicato che inviare a casa un bollettino di pagamento, ma la scuola non è un luogo qualsiasi in cui per rimediare all’offesa basta aprire il portafoglio. La regola dovrebbe essere utilizzare ogni brutta storia per uscirne migliori di come ci si è entrati. Imparando a stare al mondo, a capire la realtà, a misurare gli effetti di quello che si fa o si lascia fare, a collaborare. Il «rispetto» è una parola grossa, la scuola deve insegnarlo trovando i giusti modi. Tanto più oggi, nell’afasia educativa delle famiglie e della società, nella pervasiva influenza delle realtà separata e immateriale dei social.

Giro di vite sulle occupazioni

Ma ciò che sta venendo avanti ha un segno tutto diverso, va oltre e fuori dal sensato «chi rompe paga», non dà il giusto valore alla pluralità dei modi con cui pagare. In una recente intervista al Messaggero il ministro Valditara ha invitato le scuole a ricorrere alla bocciatura augurandosi che «chi occupa, chi compie un atto illecito non possa essere promosso all’anno successivo». Un giro di vite è atteso anche sul piano normativo, a partire dal disegno di legge all’esame del Senato sulle nuove regole relative al voto di condotta in cui si prevedono guai serissimi, come la non ammissione alla maturità, se il voto è di insufficienza, e guai di minor peso ma sempre seri in termini di crediti e di votazioni finali se il voto non supera il 6. Ma c’è di più, il ministro annuncia di voler apportare un’integrazione, con una modifica al codice penale concordata con il ministro della giustizia. «Presenteremo nel testo sul voto di condotta una norma per poter agire in giudizio per danno di immagine. Cosa già prevista per le aggressioni al personale della scuola». C’è infatti un’altra legge in discussione in Parlamento in cui si prevedono aggravanti quando presidi, insegnanti e personale scolastico sono aggrediti da studenti, più forti quando a farlo sono i familiari. In questo contesto è stato previsto che il procedimento penale per l’aggressione possa essere avviato non soltanto, come è oggi, su denuncia della vittima, ma anche da parte delle istituzioni. Il presupposto, in verità non scontato e neppure granché intuitivo, è che l’aggressione comporti «un danno d’immagine e reputazionale dello Stato». Questa possibilità di presentare denuncia al di là delle parti lese si vorrebbe estenderla anche nel caso di occupazioni che si lascino dietro danni e furti.

Presunzione di responsabilità?

In attesa degli esiti degli iter legislativi (le opposizioni sono sul piede di guerra, ma dubbi ci sono anche nella maggioranza di governo), qualche giorno fa è arrivata ai dirigenti scolastici una circolare che non lascia dubbi. I responsabili scolastici sono invitati a denunciare gli studenti responsabili dei danneggiamenti, a utilizzare tutti gli strumenti disciplinari disponibili, a far pagare i danni. Sarà l’autonomia delle scuole, almeno a legislazione vigente, a decidere in base ai propri regolamenti. La strategia, insomma, è di farla finita con le occupazioni, mettendo sotto processo gli studenti che le promuovono o vi partecipano. Alla domanda se sia possibile immaginare una «presunzione di responsabilità in sede civile», la risposta del ministro è stata «stiamo studiando una responsabilità civile presunta per cui chi occupa debba rispondere per i danni che si siano verificati, salvo che dimostri di non aver avuto nulla a che fare con la devastazione dei beni pubblici». Tutti colpevoli, insomma, con l’onere di prova contraria scaricato sui sospettati. L’idea di questa presunzione di colpevolezza, di profilo decisamente autoritario, capovolge la nostra civiltà giuridica. Non è scontato, quindi, che passi agevolmente o che la norma tenga alla prova del primo ricorso giurisprudenziale, ma intanto il messaggio è assolutamente chiaro. Dal punto di vista politico, e anche da quello educativo. Se ne stanno già vedendo qua e là i primi effetti, è il caso dello studente di Modena rappresentante di istituto sospeso per 12 giorni per aver rilasciato un’intervista critica nei confronti del funzionamento della scuola.

Far dimenticare i flop

I motivi di questa stretta autoritaria contro le occupazioni sono evidenti. La cultura educativa del ministro che la persegue si rivelò nella sua famosa dichiarazione d’esordio – poi solo parzialmente ritrattata – sul valore pedagogico dell’«umiliazione». La sua appartenenza politica è la stessa di quanti nel governo, a fronte di ogni complessità sociale, non trovano di meglio che inventare nuovi reati e appesantire le pene. Per tante ragioni che attengono anche alle inadeguate e talora dissennate politiche scolastiche dei due ultimi decenni, la scuola italiana è precipitata in una crisi di autorevolezza e di credibilità sociale così profonda che anche tra gli insegnanti si sta facendo strada la tentazione di recuperare autorità adottando il pugno di ferro: è quindi plausibile che le scelte di Valditara sulla valutazione, il voto di condotta, le occupazioni siano indirizzate a trovare anche lì un certo grado di consenso. Alla stretta contribuisce però anche il bisogno del ministro di distogliere l’attenzione dall’esito delle sue cosiddette riforme, l’istituzione di un nuovo liceo «sovranista» per il made in Italy e la sperimentazione della filiera quadriennale dell’istruzione e formazione tecnica e professionale. I numeri assolutamente irrisori delle iscrizioni in entrambi i casi sono infatti un flop mai visto nella pur confusa dinamica delle riforme e delle sperimentazioni improvvisate degli ultimi anni. Segno che, al di là di tutto – anche delle delusioni nei confronti delle politiche non fatte o malfatte di altri governi – nel mondo della scuola ci sono ancora capacità di distinguere il grano dall’oglio.

Un vento maligno soffia sugli studenti e sulla libertà di manifestazione

Ma gli effetti di questa rinnovata demonizzazione degli studenti e delle loro forme di lotta sono anche altri, e molto pericolosi. È molto probabile che si debbano anche a questo i gravissimi episodi accaduti alla fine di febbraio a Pisa e a Firenze dove cortei pacifici di studenti che manifestavano a favore dei palestinesi di Gaza sono stati attaccati e dispersi a manganellate. Ed è scandaloso che, da parte di esponenti delle forze di governo, si sia tentato di giustificarle inventando, nel caso di Pisa, la necessità di proteggere da un centinaio di ragazzi in gran parte minori, a volto scoperto e a mani nude, il luogo «sensibile» della sinagoga pisana che era invece del tutto fuori dall’intenzione degli organizzatori e dal percorso del corteo. Con il proposito evidente, e maligno, di far connotare di antisemitismo le proteste per la tragedia di Gaza. Il malanimo nei confronti dei giovani e degli studenti, la pretesa di imporre una certa idea di «legge ed ordine» nelle scuole e nelle università si impasta presumibilmente di altre inconfessate ragioni politiche. E cresce il rischio che ciò che potrebbe sembrare solo episodico – come i fatti di Pisa e di Firenze – inneschi, come è già tante volte successo, un circuito perverso di reazioni a catena, fatto di ben altre mobilitazioni e repressioni. Ha dunque fatto benissimo il presidente Mattarella a intervenire tempestivamente sulle reazioni a dir poco inappropriate della polizia e di parte della politica ai cortei di Pisa e di Firenze. A cui si sono aggiunte le parole di un saggio costituzionalista come Zagrebelsky sul pericolo che a dare il là a un cambiamento di regime siano ancora una volta, contro legittime manifestazioni di dissenso o di protesta, i manganelli. Usati contro chi? Contro manifestanti così evidentemente giovani che le ambulanze li hanno trasportati in maggioranza al pronto soccorso dell’ospedale pediatrico.