Un giudizio per la vita

Illustrazione di Dianella Fabbri

Ergiti, o

SIGNORE,

nell’ira tua,

innalzati contro il

furore dei miei

nemici,

e destati in mio

favore.

Dio è un giusto

giudice,

un Dio che si

sdegna ogni giorno

(Salmo 7,6.11)

Angelo: tra le parole riferite a Dio, che la nostra generazione non comprende più, vi è di sicuro il giudizio. Quanti sensi di colpa creati parlando del Dio giudice, che interviene a punire il colpevole. La psicanalisi ne ha svelato il carattere

mortifero. Eppure, le Scritture sono piene di riferimenti al Dio giudice. Che fare? Emendare il testo sacro? Molti optano per una presa di distanza da quelle Scritture che sentono moraliste e giudicanti. Lo sono veramente?

Lidia: dobbiamo riconoscere che alle lettrici e ai lettori della Bibbia sono stati offerti degli occhiali moralistici: e quello

che i loro occhi vi hanno scorto, in effetti, non aveva il sapore dell’evangelo, non metteva a fuoco il carattere promettente della vita buona, desiderata da Dio per le sue creature. Quante cose abbiamo fatto dire alle Scritture, con una sorta di proiezione delle nostre idee – delle nostre paure – sullo schermo bianco del Libro!

Angelo: insieme a letture pregiudiziali, mi sembra che giochi a favore del fraintendimento anche la perdita della storia

nella quale compaiono quelle parole, ridotte a sentenze definitive. Il nostro salmo inizia con una sovrascritta: Lamento

che Davide cantò al Signore, a proposito di Cus il Beniaminita. È la prima chiave di lettura fornita dal testo per inquadrare le parole dell’orante. Rimanda al conflitto tra Saul e Davide, narrato in Prima Samuele (24-26). In quell’episodio, Davide si trova a poter uccidere il re che lo vuole morto, ma non lo fa, limitandosi a prendergli un lembo della veste per poter poi dire a Saul: vedi, non voglio la tua morte. Dio è giudice della mia giustizia. Dunque, il giudizio di cui parla il Salmo è quello di un Dio invocato per mettere a nudo le intenzioni del cuore per togliere il conflitto causato dal malinteso.

Lidia: questa osservazione vale anche per tutto il racconto delle Scritture, dall’inizio alla fine, dalla Genesi all’Apocalisse. Per non fraintendere la parola biblica dobbiamo inserire il dettaglio nel quadro. Per quanto alcune immagini di Dio ci appaiano problematiche, nel quadro biblico non è in azione un giudice spietato. Piuttosto, un Dio mobile, che passa continuamente dal trono della giustizia a quello della misericordia – come insegna la sapienza ebraica perché la posta in gioco, innanzitutto, è la cura per la giustizia. Per le Scritture ebraico-cristiane la giustizia è parola-chiave, che ha poco di giuridico e molto di esistenziale: è la promozione della vita giusta, quella che Dio ha sognato per ogni essere vivente fin dalla fondazione del mondo. Ed il giudizio gioca la funzione di tutelare e difendere la vita buona, sempre a rischio di venir meno; di ristabilire una giustizia che viene continuamente infranta. La misericordia non è il suo opposto, come se si dovesse derogare alla giustizia, far finta di niente e lasciar perdere. L’agire misericordioso, al pari del giudizio, è finalizzato a ristabilire la giustizia, a raccogliere il grido del disperato, che non gusta più la vita ma la sperimenta opprimente.

Angelo: nel Salmo si invoca un Dio giudice, che metta fine alla malvagità. Un’operazione che ogni giorno ricomincia daccapo e che, dunque, sorge da una passione per la giustizia, dalla cura per chi si vede strappare l’anima dal nemico e, insieme, dal desiderio che il malvagio possa cambiare vita. Il giudizio e l’ira sono partoriti dalle viscere di misericordia di un Dio che non può rimanere indifferente di fronte al dolore provocato dall’ingiustizia. Mentre il malvagio è in «doglie per produrre iniquità, concepisce malizia e partorisce menzogna», ovvero genera morte, Dio è una madre generativa di vita, di una vita che difende con i denti, oltre che con la cura amorevole.

Lidia: il giudizio divino è l’ultima speranza per quanti non sono difesi dalla giustizia umana e persino per chi è morto

senza aver avuto giustizia. Ed è parola di conversione per chi opera il male. Parola che il salmo, come tutta la narrazione biblica, mostra non tanto come sentenza esterna ma come auto-giudizio. Il malvagio è spinto a prendere coscienza che «è caduto nella fossa che ha preparata. La sua malizia gli ripiomberà sul capo, la sua violenza gli ricadrà sulla testa». Il male non è tale perché qualcuno lo giudica così. Lo è perché la vita di chi lo compie precipita e l’ingiustizia commessa contro altri gli si ritorce contro. Ancora una volta, in gioco c’è la vita buona, che il Dio biblico desidera promuovere. Un obiettivo che gli umani falliscono in continuazione.