Un coro di voci
Il SIGNORE ti risponda nel giorno dell’avversità…
faccia riuscire ogni tuo progetto.
Noi canteremo di gioia per la tua vittoria…
So già che il SIGNORE ha salvato il suo unto
e gli risponderà dal suo santo cielo,
con le prodezze della sua destra.
Gli uni confidano nei carri, gli altri nei cavalli;
ma noi invocheremo il nome del SIGNORE, del nostro Dio.
(Salmo 20)
Lidia: quando lo stupore cede il passo allo smarrimento, quando il fuoco delle parole si spegne perché giunge il giorno della prova, che forma prende la nostra relazione con Dio? Quella classica, sembra dire il salmista: ovvero, che tu domandi di essere liberato da quanto ti angoscia e Dio risponde salvandoti, esaudendo la tua richiesta, realizzando i tuoi desideri. Ma non è proprio questo modo di andare a Dio che ci fa problema? Mentre ascolto queste parole penso all’obiezione di chi vi intravvede un rapporto strumentale: ti ricordi di Dio solo nel momento del bisogno, lo riduci a stampella per i momenti in cui sei privo di forze, lo immagini alla stregua di un tappabuchi laddove tu non sei in grado di colmarli. E sento mormorare anche il commento sconsolato di chi ha domandato e non ha ricevuto alcuna risposta.
Angelo: è vero. Qui, come in altri salmi, sentiamo una distanza critica con l’esperienza dell’orante. O meglio, ci sentiamo combattuti: vorremmo che fosse così, desidereremmo avere una medesima fede – e in certi momenti la riteniamo plausibile, ci sembra l’unica strada da imboccare – e nello stesso tempo ci sembra che sia troppo ingenuo pensare che Dio intervenga a risolvere i nostri problemi, che sia un modo magico di vivere quella relazione. Il nostro salmo, però, non dà voce alla deriva, perlopiù ricattatoria, di una preghiera che pensa Dio entro l’orizzonte pragmatico del problem solving, pena il venir meno della relazione: se non esaudisce la mia richiesta, allora non credo più in Lui. Piuttosto, dà spazio ad un coro di voci che augura
all’orante una felice conclusione del giorno dell’avversità.
Lidia: sì, una preghiera corale in forma di augurio per un re che non dispone di un esercito potente, che non può confidare in carri e cavalli. Un coro che fa da controcanto ad altri più verosimili cori, quelli che, guardando alla fragilità di quel minuscolo regno, lo irridono e scommettono sulla sua inevitabile sconfitta. Parole augurali che provano ad accendere sguardi differenti, che sfidano l’evidenza; che mostrano una solidarietà a fronte del più consueto schierarsi col più forte. I Salmi ci mostrano che la preghiera è anche questo: un laboratorio per apprendere l’arte dell’augurare il bene, del bene-dire, per imparare a tessere legami di solidarietà con chi è ritenuto fuori dai giochi di potere ed è ostaggio dell’avversità.
Angelo: una preghiera che trasforma anche il beneficiario, in questo caso il re, e la stessa città amministrata dal sovrano. La preghiera corale di un popolo rende consapevole il re della propria vulnerabilità senza denigrarlo. Lo posiziona in base ad un principio di realtà, senza per questo abbatterlo. Il re, in sé, è fragile, ma la forza non gli giungerà ricercando alleanze improbabili con le potenze limitrofe che, in un secondo tempo, lo sottometteranno imponendogli pesanti dazi. La forza gli giunge da una comunità solidale che invoca per lui e con lui quel Dio che agisce nella storia con il diritto e la giustizia. Detto con un linguaggio laico: un re che ricerca il bene comune e la coesione sociale ha come armatura la forza di una comunità solidale, in grado di sostenerlo nelle difficoltà. La preghiera non è solo un gesto religioso, intimo; diventa atto politico, che trasforma le relazioni sociali e persino le dinamiche di potere, indirizzando il desiderio del re verso il benessere collettivo. Mentre la comunità invoca sul re il sostegno divino, richiama il re alla sua vocazione di garante della giustizia e della pace sociale. Mentre il popolo prega per il suo re, impara ad esercitare un ruolo attivo nella sfera pubblica e, dunque, smette di essere passivo, ovvero suddito, per diventare a pieno titolo cittadino.
Lidia: qual’è, dunque, il desiderio che muove la preghiera? C’è un’enorme differenza tra il gesto opportunistico e strumentale di chi domanda solo di portare a compimento, ad ogni costo, quanto si è proposto e l’invocazione per altri, la cui condizione non promette alcun guadagno. Il gioco dei pronomi e degli aggettivi nel nostro salmo mostra un’autentica spogliazione dalla dittatura dell’«io», un’apertura al «tu» dell’altro e una composizione di un «noi» che si fa carico della fragilità altrui. E crede che anche Dio sia sensibile al dolore di chi si ritrova a terra e desideri rimetterlo in piedi e renderlo saldo. Preghiere come questa sono un collirio per i nostri occhi appannati, un balsamo per cuori ripiegati su di sé.