La felicità nella fragilità

Beato l’uomo a cui la trasgressione è perdonata,
e il cui peccato è coperto!

Beato l’uomo a cui il SIGNORE non imputa l’iniquità
e nel cui spirito non c’è inganno!
Finché ho taciuto, le mie ossa si consumavano
tra i lamenti che facevo tutto il giorno…

Rallegratevi nel SIGNORE ed esultate, o giusti!
Gioite, voi tutti che siete retti di cuore!

(Salmo 32)

Angelo: Ritroviamo quel “beato” con cui si è aperto il Salterio, cifra dell’itinerario proposto. E com’è tipico della letteratura biblica, che fa leva sulla ripetizione senza dire la medesima cosa, ci stupiamo per il diverso uso dell’aggettivo. Nel Salmo 1 “beato” sta ad indicare una vita tutta d’un pezzo, che non si lascia scalfire dal modo di vivere degli empi e degli stolti, avendo come anticorpo alla patologia della mondanità la parola della Torah, meditata giorno e notte. Lì l’essere beato riveste i tratti ideali della vita buona, sognata da Dio per noi; una vita generativa, feconda, che fa frutti in tutte le stagioni. Qui lo stesso aggettivo si muove tra le maglie ingarbugliate della vita reale.

Lidia: Significativa questa tensione tra momento ideale e situazione reale a proposito della vita beata, felice. Il Salmo 1 indica la chiave musicale; poi, però, la melodia si articola tra note alte e note basse, tra armonie e dissonanze. Come si fa a vivere tutta una vita senza fermarsi nella via dei peccatori? Certi ideali di integrità morale sembrano non fare i conti con la complessità della storia e con le contraddizioni del cuore umano. A mio giudizio, sta qui la genialità della Scrittura, che inserisce l’ideale in una storia, che mostra la meta ma poi si sofferma sul cammino, mostrando con estremo realismo cosa succede lungo quella strada e domandandosi a più riprese se la vita buona sia in grado di reggere all’urto della storia.

Angelo: qui la beatitudine non consiste nell’evitare l’errore ma nel credere nella possibilità del perdono, di avere una seconda volta. Si incontra Dio quando ci si lascia perdonare e si rimane stupiti della sua presenza non giudicante, da quella mano che non punta il dito ma copre e cancella la trasgressione. E come se questo non bastasse a mettere sottosopra tutto un immaginario religioso, così moralistico e foriero di sensi di colpa, il salmista inverte le posizioni: non raggiunge la felicità chi pensa di essere immune dall’errore, dal momento che una tale presunzione affonda le sue radici nell’inganno. L’orante stesso confessa di aver corso questo rischio, presentandosi agli altri come un giusto, una persona tutta d’un pezzo e tacendo le proprie fragilità.

Lidia: è notevole questo movimento dell’anima che trova la beatitudine quando abbandona la presunzione della giustizia e non quando la rivendica. Mi immagino questo salmista come il classico uomo di chiesa, da tutti additato come modello, che ad un certo punto smette la preoccupazione per la sua immagine sociale e si domanda: ma io chi sono, in realtà? Cosa sto tacendo di me, pur di mantenere la posizione acquisita? Cosa sto nascondendo agli altri e persino a me stesso? Quest’uomo scopre il senso della fede a partire dal fare i conti con l’intero della sua esistenza, facendo emergere anche il rimosso, osando fare verità.

Angelo: la fede, quella che non si limita alle apparenze, è un’operazione di verità. È un cammino di spoliazione di tutti quei camuffamenti a cui l’immagine sociale, la presunzione religiosa ricorrono per rivestire il cuore umano, rendendolo in questo modo impermeabile all’ascolto della parola di conversione. È in buona fede che, perlopiù, avviene questo, per motivi religiosi, in obbedienza alla volontà divina. Insieme all’ironia della sorte, di cui tutti facciamo esperienza, c’è una sorta di ironia della fede, per la quale la difesa della sua giustezza nelle nostre vite allontana dal Dio che desidera perdonare e rimettere in piedi. Come nel racconto evangelico del giovane ricco, per seguire il Signore bisogna prima lasciare qualcosa, occorre osare fare verità sulle proprie vite.

Lidia: il cuore retto non è l’organo che abita il corpo dei perfetti, di chi non sbaglia mai. La beatitudine della vita buona consiste nella mai arresa ricerca della verità del proprio vissuto e nella fiducia che Dio desideri incontrarci a partire da quello che siamo, senza infingimenti o presunzioni di sorta. Beato chi impara ad accettarsi per quello che è e che lascia a Dio il compito di donargli una pacificazione insperata!