Il perché e l’eppure

Illustrazione di Dianella Fabbri

O SIGNORE, perché

te ne stai lontano?

Perché ti nascondi

in tempo d’angoscia?

L’empio nella sua

superbia perseguita

con furore i miseri;…

Ergiti, o SIGNORE!

O Dio, alza la

tua mano!

Non dimenticare i

miseri.

(Salmo 10)

Angelo: Stiamo ancora muovendo i primi passi nel mondo dei Salmi e già si impongono alcuni tratti caratteristici del paesaggio. Come l’accostamento di situazioni opposte, che ci costringono a misurarci con la tempesta e, subito dopo, con un’inversione di rotta temeraria, nel mare calmo della benedizione divina. I viaggiatori più esperti diranno che questo panorama è visibile in tutto il continente biblico e non solo nel paese dei Salmi. È vero. Ma qui i passaggi dalla scena del negativo a quella della salvezza avvengono in modo ancora più brusco, condensati nello sguardo retrospettivo dell’orante, oggetto di una preghiera che è esperienza di unificazione di un vissuto più disarticolato. Qui gli opposti trovano una loro paradossale armonia, senza che vengano meno quei sentimenti che esprimono lo stare in situazione. Anche se la versione finale del salmo prende forma quando il male è superato, nondimeno la voce grida il dramma del patire la scena del male e poi lo stupore di un’inattesa liberazione.

Lidia: di nuovo si fronteggiano il mondo governato dagli empi e la signoria di Dio, come nel salmo precedente. Ma, a differenza di quello, qui la scena è quasi del tutto occupata dagli empi, mentre Dio è sentito lontano. Mi colpisce questa lunga narrazione di una storia decisa dai malvagi. È sorprendente la descrizione che ne viene fatta: le parole che da sempre sono utilizzate per parlare di Dio ora caratterizzano gli empi. È la loro parola a risuonare e a dettare legge. La gloria, il giudizio, la benedizione e la maledizione, il soffio e la forza: il vocabolario che narra del Dio biblico, qui, in assenza di Dio, trova una nuova referenza e racconta la vittoria a tutto campo dei potenti di questo mondo. Una versione perversa del «come in cielo, così in terra»! Questo attardarsi sulle gesta degli iniqui ci dice che qui il male non è un incidente di percorso: abbraccia un’intera stagione della vita. Un tempo lungo, nel quale l’empio ha tutto l’agio di concludere che Dio non si immischia nei suoi loschi affari, e gli umili si sentono abbandonati, in balìa dei potenti.

Angelo: forse, possiamo penetrare ancor più a fondo questo salmo facendo attenzione al dialogo che questa preghiera intesse con altri salmi. Il «perché» iniziale è una vera e propria chiave musicale che riprende il medesimo interrogativo del Salmo 2. Abbiamo visto come, a fronte del cammino verso la felicità suggerito dal Salmo 1, il componimento successivo affronta il conflitto che caratterizza ogni storia e dà voce alla domanda che sorge di fronte a questa insensata opposizione al progetto divino della vita buona. Ma se nel portale d’ingresso al Salterio la lotta appare dispari, alla luce della redenzione messianica, qui, il «perché» dell’orante, privo dell’assicurazione di un riscatto finale, risuona sofferto e anche deluso. Non è domanda accademica che inaugura una distaccata riflessione sulla questione del male: è la vita offesa a parlare. Nel Salmo 2 il «perché» è messo in bocca a Dio; qui, invece, è Giobbe a prendere la parola. E proprio come nel libro di Giobbe, anche qui percepiamo il protrarsi di una situazione di sofferenza immotivata che grida a Dio di mostrarsi e di intervenire. Dove sei, Dio? Perché non hai la costanza dell’empio, che sta in agguato, spia e alla fine cattura nella sua rete i poveri indifesi? Perché distogli gli occhi dall’ingiusto teatro della storia?

Lidia: sembra il rovescio del Salmo 8: se guardo la terra, opera delle dita degli empi, che cos’è Dio perché io lo ricordi? Anche in questa riscrittura diabolica della creazione, assoggettata alla logica perversa e cinica del profitto individuale, compare un «eppure». Nel Salmo 8 stava ad indicare che quell’insignificante granello di polvere che è l’essere umano, un nulla se confrontato con l’immensità dell’universo, è stato sognato da Dio come un re, di pochissimo inferiore al suo Creatore, che l’ha fatto a sua immagine e somiglianza. Qui, l’«eppure» si riferisce a Dio, sentito lontano, fuori dai giochi della storia, ma creduto in grado di vedere, di ergersi e di intervenire di nuovo per ristabilire la giustizia. Non è il linguaggio dello stupore per la grandezza della condizione umana. È il grido di lamento di fronte ad un’umanità affascinata dal male. È un grido che prova a svegliare quel Dio assente «affinché l’uomo, che è fatto di terra, cessi d’incutere spavento». La fede è il «perché» e l’«eppure», il grido che non si rassegna a subire il male e confessa Dio e domanda a gran voce il suo intervento in un mondo che ne celebra