Guardami!

Illustrazione di Dianella Fabbri

Fino a quando, o

SIGNORE,

mi dimenticherai?

Sarà forse per

sempre?…

Fino a quando mi

nasconderai il tuo

volto?

Fino a quando

avrò l’ansia

nell’anima

e l’affanno nel cuore

tutto il giorno?

Fino a quando

s’innalzerà

il nemico su di

me?

Guarda, rispondimi,

o SIGNORE,

mio Dio!
(Salmo 13)

Angelo: cosa c’è dietro una lamentazione, che esplode in un grido o rimane soffocata dietro un volto sconvolto? Cosa muove a domandare: fino a quando? Perché non ci arrendiamo all’evidenza? E come accade che il grido di dolore porti a pregare, a trasformarsi in parole che diventano addirittura scrittura? Al fondo della lamentazione vi è un desiderio di riconoscimento. Per vivere abbiamo tutti bisogno di essere riconosciuti: che lo sguardo materno e i successivi sguardi si posino su di noi e riconoscano la nostra singolarità. Questo bisogno non si esprime solo nel momento della perdita; si nasconde dietro la molteplicità dei desideri: dall’amore al possesso delle cose, dalla ricerca del piacere a quella della sicurezza. Persino dietro le passioni tristi fa capolino quel bisogno che, se non soddisfatto, scatena risentimento, invidia, sentimenti distruttivi nei confronti di altri: se non mi riconoscono, allora anche tu non devi essere riconosciuto. Dietro l’amarezza a cui dà voce il salmista ci sta il senso di smarrimento di una persona che non si sente riconosciuta, sperimentando un abbandono che produce ansia.

Lidia: un’amarezza che, comunque, non riesce a mettere a tacere quel desiderio. Gli manca lo sguardo di Dio, quando è in balia di quello dei nemici: esperienza drammatica di chi si sente abbandonato in mani violente, che lo trattano come un oggetto, senza alcuna importanza, che non ne custodiscono la singolarità. Ma quel grido che denuncia il tradimento della vita tiene vivo il bisogno del riconoscimento, non abdica al desiderio di avere un nome, essere un volto. Quel grido testimonia che non dovrà essere sempre così, che il dramma patito potrà avere un termine: «fino a quando?». Mi tornano alla mente le considerazioni di Qohelet sul tempo sperimentato dagli esseri umani «sotto il cielo», fatto di momenti limitati, accompagnati dall’intuizione che ci sia un disegno complessivo, il quale però rimane nascosto alla mente umana. Qui l’orante domanda: quanto dura questo tragico momento? Io non lo so, non sono in grado di abbracciare l’intero quadro del mio tempo, ma sento che il mistero del tempo prevede anche il momento del riscatto dall’invisibilità, il riconoscimento della mia persona. Non può essere «per sempre».

Angelo: ma al presente permane la sensazione di essere dimenticato. Nessuno si volge verso di lui: il volto che si nasconde provoca ansia e incertezza. L’orante somatizza quel senso di insignificanza dovuto al mancato riconoscimento. Il momento che sta affrontando è fatto di respiro affannato, di cuore che batte all’impazzata, di paure che destabilizzano. Se non ci sono volti che ci guardano, tutto precipita, come se venisse meno l’appiglio necessario per tenersi in vita. Se anche Dio si nasconde, se persino Lui non mi guarda, come faccio a salvaguardare la mia vita da questo venerdì santo esistenziale? Sospetto che anche quel nemico che si accanisce contro di me ed esulta quando vacillo, anche lui sia mosso dal mio stesso bisogno di riconoscimento; solo che la sua ricerca batte la strada perversa di una vita che per affermarsi deve imporsi sugli altri, disconoscendo la loro unicità. Per vivere ha bisogno della mia morte: per questo i suoi occhi mi opprimono l’anima, mi riducono a scarto, mi tolgono di mezzo. In fondo, l’invocazione rivolta a Dio è domanda di resurrezione: è questo il bene desiderato, quello di una vita liberata dagli artigli della morte, una vita finalmente riconosciuta.

Lidia: il grido denuncia un presente insopportabile, insieme ad un’inattesa fiducia che Dio interverrà a rovesciare la situazione. E in questo lavoro del cuore, che dall’affanno si apre alla gioia, avviene uno strano rimescolamento dei tempi: «io canterò al SIGNORE perché m’ha fatto del bene». Il futuro sperato, in cui si tornerà a gioire e cantare, sarà il tempo del riconoscimento del bene già operato da Dio. Sarà allora che, con gli occhi illuminati dal Signore, potrà essere messo a fuoco quello sguardo retrospettivo che farà riconoscere quanto precedentemente i nostri occhi erano incapaci di scorgere. E allora avverrà un reciproco riconoscimento: quello del Dio, che volge a noi il suo volto, e quello nostro, che riconosceremo la sua presenza benevola in mezzo agli affanni della vita. Per essere riconosciuti, dobbiamo riconoscere.