Che cos’è l’essere umano?
Quand’io considero
i tuoi cieli, opera
delle tue dita,
la luna e le stelle
che tu hai disposte,
che cos’è l’uomo
perché tu lo ricordi?
Il figlio dell’uomo
perché te ne prenda
cura?
Eppure tu l’hai fatto
solo di poco inferiore
a Dio,
e l’hai coronato di
gloria e d’onore.
(Salmo 8)
Angelo: nella salita dei 150 gradini, su per i cinque piani del Salterio, il cammino dell’orante non può avere sempre lo stesso ritmo. Sono necessarie delle soste. Fermandosi, lo sguardo non è più rivolto al gradino da affrontare, al movimento del piede che sale. Si può, allora, gettare un’occhiata complessiva al cammino fatto e a quello che rimane da fare. E ci si può osservare, mentre ci si asciuga il sudore della fatica, si sospira per la lunga strada che ancora rimane e si gioisce dei passi fatti, del raggiungimento di quel pianerottolo da cui si può abbracciare un panorama più ampio. Il Salmo 8 giunge come una pausa felice, nell’ascesa impervia fin qui affrontata. Perché finora i piedi hanno valicato gradini irregolari, più simili a montagne russe: il desiderio della felicità insieme all’abisso del male; la quiete della notte e la sua trama di ombre mortali; i sussurri seguiti dalle grida; i delitti e i castighi, le diagnosi e le prognosi… È questa la vita? Una legione di esperienze differenti, sovente contraddittorie, nella quale ci troviamo dispersi e, dunque, persi?
Lidia: quante volte sentiamo di aver smarrito il bandolo della matassa! La sensazione di fondo è quella di dover far fronte a singoli momenti, ai problemi e alle preoccupazioni che il presente impone, a desideri che subito lasciano il posto ad altri. È rara la visione d’insieme. Anche il nostro salmista arranca nell’inseguire il senso di una storia mutevole, dove attori indesiderati entrano in scena e sconvolgono i piani a lungo pensati. E l’attore principale, il Dio che desidera la sua felicità, non sembra seguire un copione e non eccelle per puntualità! Ma ora, dopo notti agitate, eccone una buona. Recuperata inaspettatamente la calma, si può uscire dal chiuso della propria dimora e dall’inferno dei sentimenti negativi per rimirar le stelle.
Angelo: lo stupore di un cielo stellato! La meraviglia di intuire la sorgente di tanta bellezza in un nome! Qualcuno ha parlato di sentimento oceanico, di momenti in cui ci si sente tutt’uno con il mondo, non più dispersi e dissipati ma integri. È questo che prova l’orante, mentre i suoi piedi si fermano e gli occhi si rialzano? Le parole con cui nomina quanto sperimenta sono parole di stupore per lo spettacolo del cielo notturno, accompagnate dalla domanda sull’umanità che è parte di quella scena. Non sembra naufragare in quel mare. O, almeno, non rinuncia a tenere le mani sul timone della propria barchetta, ad interrogarsi sulle proprie capacità di governo dell’imbarcazione, sulla possibilità di navigare in quella distesa che appare troppo ampia per essere compresa dal proprio sguardo. La stella polare del nome, scorta all’orizzonte, promette di evitare il naufragio.
Lidia: all’inizio, questo minuscolo puntino nell’universo, questo atomo sulla bilancia del mondo, sente tutta la propria insignificanza. Che cos’è l’essere umano? Come nella filosofia greca, lo stupore genera la domanda. E l’interrogazione è, innanzitutto, a proposito della propria umanità, del senso dell’esistenza, al di là dei piccoli significati attribuiti alle singole esperienze. Un senso che è smarrimento: non presa sull’essere ma presa d’atto di una radicale irrilevanza. Come può Dio, quel mistero del mondo da cui tutto origina, ricordarsi e prendersi cura di questa minima esistenza? Anche solo il pensarlo, non è un delirio d’onnipotenza, smentito dal primo sguardo gettato sull’immensità di un cielo stellato?
Angelo: Eppure… ecco che il pensiero, che sta naufragando, torna a scorgere la stella polare del nome divino e riguadagna la rotta tracciata dal sogno di Dio, fin dal principio. «Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore a Dio, e l’hai coronato di gloria e d’onore». Sì, è vero, l’essere umano, se misurato all’immensità dell’universo, è poca cosa, è travaglio senza frutto. Sorto dalla lunga notte dei tempi, dato alla luce per un breve istante e, infine, inghiottito nell’abisso della tenebra, di nuovo polvere nell’universo. Un nome destinato ad essere dimenticato, a differenza di quello divino. Ma se è proprio Dio a pronunciare quel nome? Se è Lui stesso a dargli quel peso, quella gloria, di cui è privo? Se Dio desidera che la mortale condizione umana si faccia carico del governo della creazione? E non come privilegio di alcuni, di quei potenti che si ergono come semidei ma come dignità di tutte e tutti: ogni essere umano è re, al pari del Dio di cui è solo di poco inferiore.
Lidia: conosciamo gli usi impropri di questo compito, l’arte del governo pensata come dominio indiscriminato su tutti i viventi. I nostri cieli stellati sono offuscati dai gas che produciamo nell’irresponsabile saccheggio della madre Terra. E ci sorge il terribile pensiero che sarebbe meglio che Dio ci dimenticasse, che non riponesse più le sue speranze in una specie così inaffidabile. Lui, invece, sa trarre «dalla bocca dei bambini e dei lattanti» quello che la nostra presunta sapienza adulta ha smarrito. E grazie ad una nuova generazione, forse, anche per noi sarà possibile tornare ad intravvedere la sua stella polare, dal malchiuso portone di una storia che non crede più al futuro; e percepire il sussurro di quel nome che è al di sopra di ogni altro nome. A patto di fermarci nella notte, per lasciare spazio allo stupore e all’interrogazione.