Trasmettere la memoria
Tante storie
108 racconti compongono questo libro di Giorgio Villa, non un numero qualsiasi ma un numero che ha un particolare significato antropologico: “108 sono le principali virtù e i principali vizi secondo il buddhismo tibetano e ancora 108 sono le principali rivelazioni (Upanisad)” raccolte nei testi vedici. E infatti Villa, prima di dedicarsi alla sua attività di psichiatra e di studioso (ricordiamo Comunità: malattia mentale e cura; Dimagrire con la psichiatria; Violenza e psicosi), ha partecipato a importanti spedizioni antropologiche in Nepal e Macedonia.
Ma veniamo al libro. Se nel precedente (Sogno e realtà. Racconti 1997 -2017) il passante che legava le varie storie era quello dei malati, in questo, al dolente universo terapeutico, si sostituisce quello familiare (apparentemente più tranquillo e disteso), e dalla figura centrale del padre ( che ritorna in varie situazioni e in più voci, molto toccante la lettera del nipote al nonno che non ha conosciuto) ci si mette in cammino verso i legami più cari, le relazioni, le amicizie, i contatti umani per delineare una rete emotiva e affettiva molto larga che comprende oggetti, ricordi, valori, speranze, libri, esperienze e soprattutto luoghi dell’anima (Lecco, la nascita, Roma, la vita e il lavoro, l’Umbria, la vacanza, la diversione).
Un pranzo in famiglia diventa l’occasione per riflettere sui rapporti tra fratelli e per dire, senza retorica, quanto possano essere belli questi incontri ma anche fortemente imbarazzanti.
Una comune corsia di reparto (La corsia n.6) offre il destro per riflettere sul modo in cui gli altri ci vedono, su quanto contino le prime impressioni e su come un semplice dettaglio può portare fuori strada. Villa racconta, alla sua prima esperienza di reparto, di essere stato scambiato per un matto da una collega per via di un papillon rosso che indossava a causa del mal di gola.
I Miserabili è la storia dell’autore, ancora ragazzino, che viene allontanato dallo schermo, dove si trasmette la trasposizione televisiva del celebre romanzone di Vittorio Hugo, per delle allusioni, a detta dei più grandi, un po’ licenziose.
Tex Willer è un ponte tra il noi di oggi e il noi di ieri, e di quella stagione meravigliosa che fu la fanciullezza ci restituisce la sospensione del reale.
Ciascuno di noi, a partire dalla propria famiglia allargata che è il luogo dove è nato e cresciuto, e che resta impresso nella sua anima come sulla tavoletta di cera platonica, può riconoscere tipologie umane diffuse e identificarsi in questi racconti, rivedere se stesso e gli altri in situazione, attraverso processi di immedesimazione, di nostalgia, di tenerezza, di regressione, di perdita, ma anche di allontanamento, di rifiuto, di smascheramento.
Questi di Villa sono racconti che tengono in vita chi non c’è più, le persone in carne e ossa, un po’ come le abbiamo conosciute e amate, un po’ come rivivono rimaneggiate nel ricordo, ma fanno riflettere, soprattutto, sulla funzione della memoria attraverso la linea sottile ma indistruttibile che corre tra presente e passato.
Anni fa, in un libro sull’arte di raccontare una storia (Una storia platonica. Ione e la stirpe degli interpreti) scrivevo che nessun individuo è origine, principio, evento o fondamento, ammesso che qualcosa del genere ci sia, ma tutti siamo messaggeri di qualcosa, da un semplice contenuto educativo a una storia importante, dai piccoli accadimenti del giorno, che rischiano di essere inghiottiti dalla grande storia, ai grandi drammi che ci hanno sfiorato o toccato in profondità. Tutti siamo personaggi ponte, araldi, testimoni di un senso che non abbiamo creato, ma che ci è stato tramesso e che abbiamo il dovere, in vari modi e varie vesti, di trasmettere. Ripeto: nessuno è origine e nemmeno fine della storia.
“La narrazione – scrive l’autore – ci aiuta a conservare le storie di famiglia e a confrontarci con la loro stupefacente e fragile bellezza”.
Ma le storie di famiglia – lo sappiamo – non sono mai solo di famiglia. Sono, con alcune varianti e diversi intrecci, storie di tutte le famiglie. E in esse, indipendentemente dall’angolazione da cui sono raccontate, possiamo riconoscerci.
Se volete un consiglio, ma del tutto personale, cominciate il libro dal racconto Lessico famigliare: è il più programmatico, il più teorico, una specie di dichiarazione poetica sulla quale vale la pena soffermarsi prima di lasciarsi andare al flusso delle storie e alla galleria dei personaggi.