Sulla metafisica concreta di massimo Cacciari
Il libro del mese
Cosa rende ancora necessaria una ricerca filosofica che si sottragga ad essere subordinata a quella scientifica, confinata in una sola dimensione storiografica e specialistica, che esaurisca ogni suo ruolo specifico subendo il destino di una progressiva sostituzione ad opera delle Scienze?
La ragione sta essenzialmente nella conoscenza dell’essente, di ogni ente, per come è in/per se stesso, e non solo in relazione ad altro, del suo legame con il Tutto e la provenienza da un Abisso indeterminato: «Nell’apparire determinato l’essente non manifesta integralmente la propria ousìa che proviene da un Ab-grund inosservabile» (p.332).
Qui si radica ancora la necessità di una metafisica concreta – ma concreta lo è sempre stata per chi l’abbia correttamente e non dualisticamente-spiritualisticamente-astrattamente interpretata – che, senza alcuna pretesa di superiorità ma neanche complessi di inferiorità rispetto alle scienze, si misuri con le rivoluzioni dei paradigmi epistemologici per riaffermare la necessità della sua specifica ricerca per comprendere e dire il mistero della singolarità di ogni essente; per opporsi e sottrarsi ad ogni sua manipolazione e riduzione a fondo utilizzabile e salvare il suo valore in sé oltre ogni valore d’uso e di scambio.
Il thauma, meraviglia-angoscia, del nostro essere nel mondo impone ancora un’indagine metafisica intorno all’Arché degli essenti che le scienze della natura non possono da sole assolvere. Il filo rosso che attraversa tutta l’opera di Cacciari è svolto a partire dalla relazione e gerarchia antica che si istituisce tra fisica e metafisica per poi passare alla rottura costituita dalla rivoluzione galileiana, e ai differenti modi di concepire ancora una metafisica oltre le scienze, in Spinoza, Leibniz, Kant, nell’Idealismo, fino alle tesi husserliane sulla crisi delle scienze europee e alla rivoluzione della fisica novecentesca.
Le scienze della natura potranno conoscere e risalire solo e sempre a delle Origini, mai all’abisso dell’Inizio; tuttavia il desiderio di conoscere in modo olistico la natura, di pervenire ad una Teoria del Tutto, pur sperimentalmente indimostrabile, le spingerà sempre ad ulteriori ricerche, ad approssimarsi e a congetturare, proprio nel senso cusaniano del termine, intorno all’Arché, a ciò che determina la singolarità di ogni essente e costituisce l’enigmatico fondamento dell’accordo/unità di corpo e mente e di pensiero ed essere. La mente, quando indaga la physis, scopre di avere la password, ovvero i numeri, per accedervi; questa corrispondenza, enigmaticamente iscritta nell’Inizio da cui tutto proviene, suscita stupore e impone che la si interroghi per cercare quel fondamento che ne assicuri le pretese gnoseologiche ma che nessun esperimento potrà dimostrare-verificare/fare-vero.
Cacciari mostra come la rivoluzione epistemologica della fisica quantistica desostanzializzi l’essente e dissolva ogni aldilà della relazione tra osservatore e osservato; ma l’inosservabile che essa pensa, senza poterne appunto esibire un fondamento sperimentalmente dimostrabile, non è inesistente ed esige una ricerca che si approssimi a ciò che mai potrà essere determinato. Perché l’inosservabile non solo non è in un evanescente Iperuranio ma appare in relazione con l’osservabile, è l’abisso inquietante e meraviglioso che può mostrarsi, ineffabile e inspiegabile, in ogni qui e ora. Non possiamo per questo arrestarci alla dimensione misurabile-calcolabile degli essenti, formulabile solo attraverso il linguaggio dell’esattezza matematica:
«La non predicibilità non può escludere da sé l’ambito del possibile… non può significare l’assolutamente indicibile, ma soltanto il limite dell’osservabile-misurabile. La domanda, allora, suona: dell’inosservabile è concepibile un dire, un cercare di dire ciò che non sappiamo dire? E questo cercare non si colloca, forse, senza alcun contrasto con l’osservabile-dicibile, anzi: sulla sua stessa linea, accanto e oltre a ta physikà? Dimensione meta-ta-physikà che sarebbe, allora, la scienza, in nome proprio, a esigere» (p. 240).
II. La nostra civiltà, scrive Cacciari, adora fin dalle sue origini greche e cristiane, pur nella differenza tra una verità razionalmente e autonomamente fondata e una rivelata, solo ciò che conosciamo con evidenza. Ma l’Autore mostra poi come lo scire per causas, necessario al metodo scientifico, non può boriosamente condurre ad assolutizzare il principio di causalità in senso deterministico. La legge del caso implica che i casi non possano essere previsti che in modo statistico-probabilistico; né si può escludere che altro possa accadere, che non sia un necessario e intrascendibile destino che accada quel che deve accadere. Un principio di ragione insufficiente, e non sufficiente, deve allora essere assunto per l’analisi della catena di cause da cui si origina per salti, e non linearmente, ogni evento che, nella Natura come nella Storia, non può essere spiegato e dedotto deterministicamente per quante cause antecedenti si possano conoscere di esso. L’eterno ritorno delle stesse cose sempre è solo una della possibilità del darsi del mondo e non la sua ferrea legge; un’ontologia della libertà non può che presupporre allora un’originaria incondizionatezza, una Libertà che non è Causa originaria e necessaria di alcun effetto prodotto:
«Il nostro esserci ha il potere di tendere costantemente a comportamenti che spezzano il nesso causale, perché ontologicamente questo nesso si proietta sullo s-fondo dell’Inizio, dell’assolutamente incondizionato. La libertà del nostro esserci è necessaria in forza di tale nesso, in cui ogni determinismo viene superato» (pp. 266).
Analogamente, il fondo della nostra anima, i cui confini mai potremo raggiungere, è ciò che il nostro Io mai potrà rappresentare ed esaurire; da esso, – benché, osserva Cacciari, la psicologia scientifica insista a ragionare secondo quel principio di causalità che la fisica quantistica ha destituito di valore assoluto – non potremo comprendere, spiegare e far derivare le nostre azioni, i comportamenti secondo un meccanicismo deterministico.
Damasio, nel suo libro: ‘Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello’ (Adelphi, 2003), afferma che la spiritualità corrisponde ad un’intensa esperienza di armonia, alla sensazione che l’organismo stia funzionando al livello massimo possibile; questo non vuol dire ridurre il sublime della spiritualità ad un funzionamento fisiologico meccanico sminuendone così la dignità ma piuttosto che debba essere inclusa anch’essa nel ‘sublime’ che è la vita biologica. Infatti, spiegare deterministicamente il processo fisiologico alla base della trascendenza spiritualistica non serve a chiarire il mistero del processo vitale a cui quel particolare sentimento è connesso: esso svela piuttosto il rapporto con l’enigma dell’originaria unità-distinzione di mente e corpo, di intelligenza e natura, non il mistero in quanto tale, conclude lo scienziato portoghese.
Non solo dunque, osserva analogamente Cacciari, nessun riduzionismo può ricondurre alla dimensione biologica, che è certo la base da cui proviene il dono del Sé, della nostra coscienza ma fragile e poroso appare il confine tra i diversi nostri stati interiori. Inoltre noi siamo uno, nessuno, centomila, abbiamo diversi volti, e quando osserviamo-scegliamo di privilegiare uno di essi, lo isoliamo dagli altri e noi stessi assumiamo una sola tra le differenti prospettive con cui potremmo guardarlo e relazionarci ad esso.
III. Gli scienziati contemporanei, osserva il filosofo veneziano, sanno che si dà un tempo che non è inesistente, irreale solo perché non misurabile o non osservabile attraverso nessuno strumento. Ineliminabile dal nostro esserci qui e ora non è solo l’esperienza della temporalità come uno scorrere da un prima a un dopo ma anche la possibilità della simultaneità, dal darsi della coincidenza di casi senza alcun nesso causale o immediata relazione tra essi, che anche nell’immaginazione e nei linguaggi artistico-musicali si mostra: «È la stessa theorìa fisica a mostrare come si diano fenomeni connessi tra loro in forme che non possono ridursi al legame causale. Come nella memoria un’immagine può risvegliarne un’altra, un’impressione fortissima riaccendere una situazione che si credeva dimenticata, come un colore può trasformarsi nella mente in suono e viceversa, così un evento fisico si dà insieme ad un altro senza che sia possibile stabilire tra loro una relazione significante qualcosa di diverso dal fatto del loro stesso simultaneo accadere» (p.267).
La potenza, e l’eccezionalità all’interno della natura, della nostra mente non consiste, infatti, solo nel poter ragionare, meditare ma anche immaginare, ricordare, sognare; destituendo una centralità o un primato logocentrico, ogni facoltà della mente converge a disegnare e vedere altri volti dell’esistente altrettanto reali. La fatica del concetto è mossa dal prepotente desiderio di certificare che non si tratti di mind games ma piuttosto di un’eco nella mente dell’in-finito che l’essente anche è; di pensare un possibile mai in atto e non per questo irreale, un fantasma dell’immaginazione.
Non solo dunque non può essere assolutizzata quella che non è altro che una teoria statistica del tempo (Schrodinger), ma la freccia del tempo si dà in uno con l’energia che costantemente la contrasta. L’essente e la Natura tutta hanno strutturalmente dentro di sé una contraddizione tra il divenire entropico e un’istanza anti-termodinamica; il nostro cervello e tutto il nostro esserci lotta contro il destino mortale: «Forse il nostro cervello è l’organismo che più dispone di queste capacità; ogni sua operazione è alla ricerca di impedire o ritardare, inventano o scovando ogni mezzo, il collasso del corpo che lo ‘ospita’» (p. 312).
Ogni essente appare mosso dal fine di essere in forma, desidera compiere il bene che è il fine della propria natura; può essere potente, capace di realizzarlo o rivelarsi im-potente. Non è nulla, infatti, il cuore dell’essente, la sua provenienza e la sua destinazione ultima, e per questo la ricerca intorno ad esso può essere detto come una philoagathìa. Una metafisica che indaghi la comprensione e individuazione della motilità ontologico-esistenziale degli essenti, l’uomo come esserci del possibile, implica allora che tutto il possibile sia e che la sua piena realizzazione non escluda ma si concluda con la possibilità dell’Impossibile nostro essere eterni, essendo l’Impossibile non l’opposto ma l’estrema misura del possibile. Poter sempre trascendersi, confliggere con la propria finitezza, caducità, appare dunque un tratto costitutivo del nostro esserci e chiama ad un pensare escatologico: «Un tale éschaton vive nell’effettività di ogni conatus, al cuore della cupiditas che muove l’esserci – è la sua natura a volere così, a proiettare ogni possibile al grado ultimo» (p.354).
Questo significa che la convinzione che dall’Ade non potremo avere scampo possa essere superata da una Visione escatologica che confermerà ciò che ci appare già oggi possibile.
La percezione della caducità di ogni essente non è un’illusoria apparenza ma uno dei volti in cui si mostra, ‘realmente’, il nostro essere qui e ora. Ma Cacciari condivide il concetto severiniano che un ente quando muore scompare, non viene annientato, né è possibile provarne fenomenologicamente il diventare nulla: «Chiamo morte la vita che non vedo» (p. 294). Non appare più a nostra disposizione e non possiamo comunicare con l’essente che ‘muore’ ma non possiamo escludere che questa e ogni vita continui in una dimensione per noi qui e ora inosservabile. Perché la morte dovrebbe essere interpretata come il sigillo definitivo sulle possibili trasformazioni dei viventi?
Per Cacciari lavorare la domanda sulla mortalità del nostro eksistere, consente di dispiegare l’energeia dell’anima attraverso un faccia a faccia con il suo estremo, ultimo possibile: pensare la morte in questo modo ci mette sulle tracce di quegli indizi di immortalità che contraddicono il dato apparente dell’essere la morte necessariamente vestibolo del nulla, di un eterno non essere mai stati. Dunque per il filosofo veneziano non si tratta solo di pensare heideggerianamente alla morte come possibilità dell’impossibilità dell’esistenza, ma all’impossibile possibilità di eternità; alla relazione che intratteniamo con l’immemorabile Passato da cui proveniamo e il Futuro che ci attende, da cui mai potrà essere escluso, ma neanche necessariamente assicurato, gaudium.
Nella filosofia contemporanea la riflessione su una nostra possibile essenza e destinazione eterna, appare prevalentemente trascurata e marginale; Severino e Cacciari hanno invece osato ripensare, in modo originale e differente da quello della Tradizione filosofico-teologica occidentale, la concezione di una vita che non finisce con la morte.
Tuttavia il filosofo veneziano, in Labirinto filosofico, aveva già evidenziato anche le aporie delle tesi severiniane in relazione alla presunta incontrovertibilità della nostra destinazione eterna: se l’esperienza tace sul destino della cosa quando non appare, niente può dimostrare relativamente al nostro andare nel nulla ma allora neanche dell’eternità dell’ente. Per Severino, l’apparire infinito di ogni ente, la totalità concreta delle sue relazioni con gli altri enti, non può apparire infatti mai interamente nel cerchio finito se non in un infinito procedere: è quella che il filosofo bresciano chiama la contraddizione C e che non consente dunque ai mortali di esperire se non ‘astrattamente’ la loro destinazione eterna. È la Verità stessa insomma che nascondendo empiricamente la relazione tra l’essente e la totalità delle relazioni, cui appartiene e che lo costituiscono, destinerebbe all’errore i mortali.
Differente appare allora, per il filosofo veneziano, la conoscenza dell’impotenza della ragione a fondare un sapere innegabile e la possibilità che l’Impossibile accada e che l’enigma oscuro della più profonda provenienza e del destino ultimo dell’ente possa essere eternamente iscritto nel Tutto. La stessa serrata trama delle argomentazioni prodotte dall’Autore, che nessun passaggio teoretico-speculativo esibisce senza rigorose connessioni logiche, non pretende di afferrare, concipere l’Energia che tutto muove, né di logon didonai, di risolvere compiutamente il mistero dell’esistere.