Le aporie dell’esistenza
Tante storie

Michele Capasso
La costruzione dell’assurdo
Senso e non senso nell’opera di Beckett
Stamen, 2024, pp. 113
€ 14
Tre saggi su Beckett ma è il primo, più introduttivo e generale, a dare giustamente il titolo al libro.
Infatti “La costruzione dell’assurdo” dice tutto, dice l’ossimoro su cui sorge l’intera opera di Beckett qui analizzata essenzialmente attraverso i due drammi probabilmente più conosciuti: Aspettando Godot e Finale di partita.
Nelle pagine beckettiane entriamo in contatto, senza filtri e consolazioni, con le verità esistenziali più laceranti: la ricerca del senso in un mondo insignificante; la nostalgia del centro in uno spazio sfilacciato e privo di riferimenti; l’attesa (messianica o meno) in una storia senza utopia; il bisogno di muoversi e di avere una direzione in mancanza di una meta; la speranza di trovare un volto laddove sono rimaste solo maschere o spalle; l’indifferenza della decisione sospesa tra il fare e il non fare assolutamente nulla; la necessità di un dialogo nel contesto di un’esistenza dove le parole sono usurate, svuotate di significato o ridotte a flatus voci al punto che sorge legittimamente il sospetto che ciascuno, pur vivendo e parlando con gli altri, viva ormai per sé.
Crollano i fondamentali dell’arte retorica: alla crisi del referente (di cosa parliamo), corrisponde anche quella dell’interlocutore (con chi stiamo parlando) per finire con la madre di tutte le crisi, quella di chi parla, di chi inizia e costruisce il discorso. Non ci sono più fatti e prove né soggetti.
E tuttavia, per affrontare questa desertificazione non si può che parlare, per deridere parole, discorsi, affermazioni, negazioni, teorie non abbiamo che le parole, quelle tradizionali e quelle che proviamo di volta in volta a inventare; per ridicolizzare i parlanti non possiamo che farlo attraverso altri parlanti; per criticare un certo modo di fare teatro immaginare una drammaturgia nuova. Forse non è vietato tacere ma sicuramente non è utile. “L’impossibilità di tacere – scrive l’autore – è un altro modo per intendere la posizione di Beckett. Si potrebbe pensare che il silenzio sia finalmente la possibilità della non espressione. Eppure, nulla è più espressivo di certi silenzi. Pensiamo di sottrarci al senso ed esso continua a catturarci. L’unica possibilità è, parlando, di far tacere i discorsi che ci sommergono. Il silenzio può essere solo una conquista, mai un punto di partenza”.