Le parole sono importanti, anche in Rete
Dice il saggio
Vera Gheno è una sociolinguista che si occupa della relazione tra lingua e comunità dei parlanti: attraverso la lingua studia la società. Cura il podcast online “Amare parole” e ha dato alle stampe diversi libri: l’ultimo in ordine di tempo si intitola “L’antidoto. 15 comportamenti che avvelenano la nostra vita in rete e come evitarli” per i tipi di Longanesi. Il libro mette insieme diversi spunti che l’autrice ha raccolto durante i suoi corsi all’Università di Firenze di «Lingua, cultura e mass media» e «Linguaggi della diversità nelle società complesse», organizzandoli in capitoli dedicati ciascuno a un “veleno” e al suo possibile “antidoto”.
Pienamente immersa in quella che il filosofo Luciano Floridi ha definito la onlife, un’esistenza nella quale online e offline non sono più da considerare due mondi indipendenti, separati l’uno dall’altro, Gheno rivendica il piacere di utilizzare la rete e i social media e al linguaggio e alla comunicazione che viaggia attraverso il mezzo telematico dedica questo lavoro, dopo essersene già occupata in passato (da un suo scritto sull’argomento fu ricavata una delle tracce di attualità per il tema dell’esame di stato dello scorso anno).
Il libro è pieno di termini che aiutano a definire ed etichettare fenomeni che caratterizzano il linguaggio e la comunicazione online: FOMO, la fear of missing out, la paura di perdersi qualcosa che è successo online in nostra assenza; othering, o alterizzazione, il procedimento mentale per individuare dei nemici in ciò che è diverso da noi; brandizzazione dei famosi, cioè riduzione dei personaggi pubblici a puri marchi cui potersi rivolgere in qualsiasi maniera; mansplaining (crasi di man+explaining) per indicare gli «spiegoni maschili» rivolti alle donne; woke, letteralmente risvegliato, rivolto con disprezzo a chi richiama all’uso del politicamente corretto, dal momento che alcuni termini, entrati in uso con valenza positiva ed emancipatrice, si sono poi plastificati e svuotati di senso fino ad assumere una valenza negativa; fino a quelli che l’autrice definisce i quattro cavalieri dell’apocalisse social, ovvero strategie particolarmente tossiche messe in campo per far naufragare una discussione: il tone policing, quando qualcuno si concentra sul modo in cui vengono dette le cose piuttosto che sui contenuti; il sealioning, ovvero comportarsi come i leoni marini, con commenti fin troppo lunghi e articolati, formalmente educati, finalizzati a distrarre dalla discussione stessa, portandola su questioni collaterali, oppure attirando tutta l’attenzione su di sé; il concern trolling, o «trollaggio della preoccupazione» attraverso post o commenti che solo apparentemente condividono quello che è stato scritto, ma in realtà ne prendono le distanze; fino al gaslighting che consiste nel manipolare psicologicamente (una persona), ripetutamente e per un lungo periodo di tempo, in modo da metterne in dubbio la validità dei pensieri.
Il capitolo più riuscito del libro è quello dedicato alla cosiddetta “ora d’odio”, quel veleno in base al quale aggredire è più facile che cercare di spiegarsi. Gheno classifica le tipologie di chi avvelena le discussioni online: i “passivo-aggressivi” che si limitano a mettere like a un commento offensivo, o denigratorio, oppure la faccina che sghignazza a corredo di un commento che tenta di argomentare seriamente; i “fintamente educati” che si pongono in una posizione di superiorità di fronte a quello che giudicano lo scompigliato starnazzare di tutti gli altri; i “dissociati o agit-plop” che commentano sprezzantemente con un «boh», «mah» e simili; gli “offensivi arrampicatori di specchi” che ricorrono a offese personali o a generalizzazioni indebite; gli “eroironicisti” che dopo aver offeso se la cavano con un «ma io ero ironico»; gli “sfidanti” che piombano in una discussione, aggrediscono, prendono a male parole ed esigono che la persona dall’altra parte si presti a un confronto; fino agli “odiatori giusti” che infieriscono sui profili della persona protagonista di un’azione sbagliata, riempiendone la bacheca di insulti e minacce.
Leggendo questi profili si riconoscono, e spesso ci si riconosce in prima persona, i protagonisti di tanti scambi in rete. Perché, se è vero che il numero delle persone che online legge senza commentare è molto maggiore delle persone che intervengono, pur essendo queste ultime più rumorose e così segnalandosi maggiormente, così come accade per lo più che parla e interviene chi ha meno raziocinio, chi magari ha riflettuto meno su una questione e chi meno sa; è altrettanto vero che non esiste il popolo degli odiatori, è un’illusione pensarlo: ognuno di noi, in determinate circostanze, può diventarlo.
Alla fine, i suggerimenti che più sembrano indicati, i migliori antidoti, sembrano proprio quelli dettati dal buon senso che Gheno esplicitamente vuole offrire senza timore di farli passare come ovvietà. In primis considerare che la comunicazione scritta mediata dalle tecnologie non è mai un tipo di comunicazione strettamente privata. Per quanto ci possa sembrare tale (magari perché originata da un messaggio uno-a-uno) non lo è mai fino in fondo, per non parlare dei social che fanno della condivisione a un pubblico più o meno allargato la loro stessa natura. Una foto, un testo, una reazione inviata tramite computer o smartphone sono contenuti digitali che possono essere ritrasmessi, replicati, modificati e diffusi nello spazio e nel tempo ben al di là delle nostre intenzioni. Questa necessaria considerazione, che troppo spesso sfugge agli utenti, dovrebbe indurci a porre il giusto livello di attenzione a ciò che comunichiamo e come lo comunichiamo. Se in privato, offline, tra conoscenti, è sbagliato auto-censurarsi, né ha senso perseguire una mistica dell’infallibilità linguistica, tanto più che è dagli errori e dalle correzioni che ci vengono mosse che possiamo imparare, quando, invece, siamo online serve più attenzione al contesto e agli interlocutori, tenendo sempre a mente che le tracce che lasciamo possano poi viaggiare a nostra insaputa e senza il nostro controllo e ripresentarsi chissà quando in futuro.
L’altro aspetto che quasi sempre ci condiziona negativamente è la sensazione di mancanza di tempo, quella fretta di mettere nero su bianco la comunicazione, la risposta, la replica o reazione, quando invece di tempo a disposizione per comunicare ne abbiamo molto più di quanto siamo portati a pensare ed è quasi sempre bene attendere, rallentare, far sedimentare, maturare e riflettere. D’altronde la rete si è storicamente strutturata su modalità di comunicazione asincrona e solo negli ultimi tempi si è imposta come prevalente quella sincrona che ci spinge alla reazione immediata e poco meditata. Si può in questo modo riscoprire anche il valore del silenzio e della pausa che sono comunque una possibilità, a volte la più indicata di fronte a certe discussioni. Se l’algoritmo detesta il silenzio e la piattaforma ci induce a intervenire, per noi umani invece il silenzio e l’astenerci dal dare sfogo alla polemica possono essere utili amici di cui non privarci. Non si deve diventare ipersensibili su qualsiasi cosa, sentirsi “triggerati”, cioè accesi, turbati, da singole parole o argomenti che, per un motivo o per l’altro, non riusciamo ad affrontare in maniera serena, sentendoci chiamati a intervenire e ingarbugliarci in discussioni che spesso scaturiscono dal nulla oppure dal nostro bisogno di apparire.