Il Jazz raccontato da un Maestro
Che spettacolo!
Non solo giusto ma anche doveroso verso se stessi, giunti al momento più importante della propria vita non solo professionale, che si testimoni quanto ascoltato e visto nel corso di decenni di passione e partecipazione dei quali s’intende portare a conoscenza chi abbia gli stessi interessi. Ed è un contributo importante, se non prezioso, per ogni lettore, anche a prescindere dai propri interessi per un genere o per un altro.
Chi, come l’autore, ha avuto la possibilità di assistere agli eventi di cui scrive, sa bene che “testimoniare” è quasi un liberarsi dall’unicità della memoria di se stessi portando l’“io c’ero” o l’“io ho ascoltato” o l’“io ho visto” ad altre vite, ad altre emozioni. Viene narrata con grande naturalezza la nascita della passione per la musica “fin da quell’epico 4 giugno 1944, quando schiere di Marines euforici sfilarono in Via Appia Nuova” per poi “da adolescenti più cresciuti divenire pazzi della musica leggera… finché il Jazz divenne un’ipnosi a parte per quegli stravaganti personaggi del Be Bop che si chiamavano Charlie Parker, Thelonious Monk o Dizzy Gillespie”. Incontro fulminante, vissuto come attimo quasi eroico fino a che il Jazz si rivolse “a confondere e mischiare tutti gli stili del secolo precedente… un’antologica confusione di stili e cliché come sta succedendo a più o meno tutta la musica d’oggi”.
Uscire da se stessi e viverli ancora quei momenti, serate che non si chiuderanno mai, fianco a fianco con 25 “musicisti straordinari” e non solo quelli dediti alle Blue Notes: l’anima tanguera di Astor Piazzolla, il solare tropicalismo di Caetano Veloso e Maria Betanha, il boom swing di Cab Calloway, le sorprese fusion di Wayne Shorter, le distoniche armonie di Ornette Coleman, le imprese Hard Bop di Sonny Rollins e Benny Golson, il magnifico e struggente Cool di Chet Baker, l’eleganza formale di Gerry Mulligan, lo straordinario vocalismo di Ella Fitzgerald, il Latin graffiante di Gato Barbieri e, naturalmente, Louis Armstrong, Miles Davis e Keith Jarrett.
Si aggiunga a questo il merito d’aver dato vita al mensile “Gong” (punto di riferimento per molti giovani che, come il sottoscritto, cercavano Suoni diversi e una nuova realtà non solo musicale) e alla Label “Black Saint”, promotrice di ottime incisioni (personalmente mi pento di averne solo una quarantina di quei dischi, grazie alla simpatica disponibilità di Giovanni e Flavio Bonandrini, figure chiave dell’etichetta) e così di Giacomo Pellicciotti si può avere una parziale idea di quanto merito va lui ascritto come giornalista e come uomo di cultura avveduto, lungimirante e versatile. Il giornalista romano è un maestro di giornalismo musicale, testimonianza vivente di quanto quel Jazz che tanto ama ha cambiato la storia della musica, uno scrittore la cui penna è stata, credo non solo nel mio caso, esempio e stimolo per cercare di percorre i passi da lui suggeriti; ancora oggi all’alba delle sue 85 primavere è sempre un piacere leggerlo e meditare sulle sue riflessioni.