Se il naufragar fu dolce in questo mare

Dice il saggio

Leopardi

Franco Trabattoni
Sentire e Meditare
Leopardi fra vita, letteratura e filosofia
Carocci Editore, 2025, pp. 103
€ 23

Banale persino il dirlo, ma l’opera del recanatese non può mai esser avvertita come non contemporanea, anticipatrice d’intuizioni filosofiche e poetiche mediate da una profonda cultura del Passato e da un avvertire un Presente/Futuro che sarà oggetto di analisi dei più acuti pensatori del tardo Ottocento e del Novecento.

Il percorso descrittivo di questo interessante saggio è incentrato non tanto sulla straordinarietà lirica quanto sulle riflessioni degli anni 1819-1823 e sugli scritti impropriamente detti “teorici”, lo Zibaldone e l’Epistolario, illuminanti circa la natura profonda ed i significati reconditi del concepire la Natura Umana secondo un forte impatto emotivo, eventi che hanno segnato in modo indelebile la formazione culturale d’ogni critico letterario così come, ritengo, d’ognuno di noi.

In maniera misurata ed attenta Franco Trabattoni, docente di Storia della Filosofia Antica all’Università di Milano, propone con lucidità una disamina degli anni centrali dell’attività leopardiana “assumendo come filo conduttore il rapporto tra sentimento e ragione, fantasia e pensiero, particolare e universale, l’io e il mondo, poesia e filosofia”, sottolineando, tra l’altro, “il riso come risposta provocatoria al sentimento di nullità di tutte le cose e il contrasto tra la vocazione eroica e civile e la disperazione individuale”, nonché quello che l’Autore denomina “platonismo occulto”.

L’atteggiamento dello studioso è misurato e distante dal retorico clamore col quale spesso s’accompagna in atmosfere non gradevoli e del tutto formali il complesso tentativo d’enucleare l’abisso del pensiero di Leopardi, in quanto “ogni interpretazione, naturalmente, è una deformazione, dipendente dall’indole e dalle idiosincrasie dell’interprete” e, forse per tale motivo, l’Autore incentra la propria disamina sulla prosa, sui pensieri estemporanei che a mio avviso costituiscono la fase più intensa e più vera del comunicare, anticipazione e forse inconsapevole chiarimento d’un raffinatissimo incontro col Mistero, motivo primo del Dolore, con i dialoghi immaginati e le memorie “Al chiar di Luna”, volendo riferirsi tanto a Claude Debussy quanto alla citata lettera del 6 marzo 1820 a Pietro Giordani: “aperta la finestra della mia stanza e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna… mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore… domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto tempo”.

Leopardi, ricorda Trabattoni, aveva in animo di scrivere un libro intitolato “Della natura degli uomini e delle cose” che avrebbe dovuto essere l’opera della sua vita, circa la quale poter dire che “il fatto che egli abbia continuato sino alla fine a credere nell’efficacia demistificatoria della ragione” appare ulteriore punto di partenza per considerazioni sul ricordo nostalgico di una felicità assolutamente immaginaria, unica forma di felicità a noi concessa, proprio in quanto illusoria. Ma, forse, di Leopardi sfugge ancora più d’un attimo, poiché il Mistero è fonte della Poesia Pura, inconoscibile bellezza proprio per tal ragione.