Da Carneade all’eutanasia

Extracanone

Massimo Mugnai
Come NON insegnare la filosofia
Raffaello Cortina Editore, 2023, pp. 224
€ 15,00

Massimo Mugnai, professore emerito di Storia della logica che ha insegnato prima a Firenze e infine alla Normale di Pisa, ha dato alle stampe il libro “Come NON insegnare la filosofia” (Raffaello Cortina Editore, 2023). La negazione sbarrata del titolo (voluta dell’editore) lascia intendere che il testo fornisca indicazioni anche su come la filosofia vada insegnata.

Meglio avrebbe fatto l’editore a mantenere quel NON così come lo aveva concepito l’autore, senza sbarrarlo. È, infatti, la pars destruens del libro, l’obiettivo negativo rivolto in primis ai manuali scolastici di filosofia, quella che convince di più, non altrettanto la proposta di passare a un insegnamento sistematico della filosofia che superi l’attuale impostazione storica partendo dai libri di testo delle superiori. La sensazione che resta dalla lettura è che si rischi di buttare il bambino con l’acqua sporca, abbandonando la storia della filosofia per ritrovarsi in mano con la sola fuffa della filosofia pop che negli anni si è accumulata attorno alla parte storica nei manuali scolastici.

Che di acqua sporca ve ne sia il libro aiuta a comprenderlo ed evidenziarlo efficacemente. Mugnai parte dalla sua esperienza pluriennale come esaminatore nelle prove di ammissione alla Scuola Normale. Il quadro è abbastanza desolante e negli anni si assiste a un peggioramento: Mugnai non si trattiene dal citare stralci di prove sostenute dagli aspiranti normalisti per avvalorare la sua tesi.

La filosofia non si riduce alla storia della filosofia, Mugnai ne è convinto, ha un suo nucleo istitutivo al quale si può puntare senza dover sottostare a un approccio storico. Peraltro fino all’Ottocento è stato così: solo con Hegel, e soprattutto con l’hegelismo, si afferma l’idea che la storia della filosofia debba costituire l’approccio principe allo studio della filosofia.

In Italia ciò trova la sua introduzione a livello scolastico con la riforma Gentile del 1923. Prima la filosofia a scuola si studiava secondo la tripartizione in logica, metafisica ed etica. Anche se, come precisa Mugnai, è con gli interventi normativi degli anni successivi al testo di Gentile (riforme Fedele del 1925 e De Vecchi del 1936) che viene sancito il definitivo prevalere dell’approccio storico, cadendo una delle principali indicazioni gentiliane di lettura dei classici, in nome del solo manuale di storia della filosofia. Tale approccio sarà confermato nei decenni successivi dalla forte e autorevole componente di storici della filosofia che dominerà il panorama filosofico nostrano.

Oltre al progressivo abbandono della lettura dei classici, ridotti a estratti e ritagli delle opere, divenuti col tempo sempre più brevi e frammentari, si è assistito a una crescita esponenziale delle pagine dei manuali di storia della filosofia, giunti ormai a diverse centinaia di pagine: un fritto misto con dentro di tutto e difficile da digerire.

Da un lato è prevalsa la logica del non escludere nessuno, una sorta di horror vacui: autori che – per quanto interessanti – sono da considerarsi decisamente minori e, messi nel manuale, inevitabilmente tolgono spazio ad altri. Mugnai non perdona lo spazio dedicato agli illuministi napoletani dal manuale “Sinapsi” (Sani, Linguiti, 2020) che pure dice essere uno dei migliori in circolazione. Per non parlare dei naturalisti greci cui è riservato l’inizio di ogni manuale storico: “Talete e l’acqua” e “Anassimene e l’aria”.

La storia della filosofia fatta così si riduce a una sorta di filastrocca di cui lo studente, anche quello studioso, ricorda slogan privi di contenuto, senza neanche sapere – nel caso dei presocratrici – che quei paragrafi iniziali dal manuale siano molto più di quanto di originale ci sia giunto di quegli autori per i quali ci si rifà alla vulgata aristotelica e pochi frammenti su cui ancora vigono complesse questioni filologiche e interpretative.

Lo stesso potrebbe dirsi per Hegel, ridotto a “tutto ciò che reale è razionale e viceversa” + “tesi, antitesi e sintesi”, o Leibnitz che diventa quello delle “monadi senza porte né finestre” per fare degli esempi… Nei manuali, insomma, ci sta tutto, troppo, e quel che ne rimane dallo studio è banale e superficiale, dando luogo, nel migliore dei casi, a erudizione nozionistica.

Che poi, a ben vedere, in questa pretesa esaustività si tace tutto ciò che non rientra nel pensiero occidentale, anche se, viste le premesse, forse è meglio che non vi siano paragrafi dedicati alla filosofia orientale, con vita, opere e pensiero di qualche esponente e la scheda che rimanda al “Piccolo Buddha” di Bernardo Bertolucci. A fronte di tante e troppe presenze autoriali occidentali ci sono assenze pesantissime di intere filosofie fondamentali per orientarsi nella contemporaneità.

Come se non bastasse la sovrabbondanza di autori, ci si son messe le indicazioni pedagogiche ministeriali che hanno fatto proliferare nei manuali mappe, sintesi, questionari, richiami al cinema, attualizzazioni tirate per i capelli, rimandi multimediali, magari ricorrendo a qualche termine inglese che meglio si addice allo scopo (Dibattito è da boomer, meglio Debate!). Lo studente non è lasciato mai a se stesso nello studio, il libro deve fare tutto per lui: evidenziare, etichettare, sottolineare, riassumente, ricapitolare, interpretare. Risultato: i manuali di storia della filosofia sono diventati volumi di quasi mille pagine, di gran parte delle quali si potrebbe serenamente fare a meno.

La conclusione, di fronte a questo quadro, pare semplice, quasi banale: studiare poche cose, quelle veramente importanti, ma farle bene. Quindici-venti autori in tutto, al posto dei cinquanta e passa che oggi sono ospitati sui manuali. E leggere le opere (meno banale, ma forse ancor più importante): non gli stralci, ma i libri o parti consistenti di essi. Per la lettura si possono individuare i classici del pensiero filosofico: Platone, Aristotele, Cartesio, Kant, Hegel, o anche spaziare su altri più attuali (Mill, Russell, Popper, Wittgenstein), analizzandone compiutamente un’opera, un segmento significativo.

A tratti Mugnai fornisce questa indicazione, corroborata da analoghe prese di posizione di filosofi quali Timothy Williamson e Nigel Warburton, ma poi, forse per non farla somigliare troppo a quanto contenuto nella riforma Gentile – il cui vizio di forma è nella collocazione del sapere umanistico al di sopra di quello scientifico – ci tiene ad avanzare la proposta di affrontare i nuclei tematici: niente storia, o solo una sua sintesi, e spazio a logica, etica, epistemologia. Somiglia tanto, e l’autore non lo nasconde, al modello inglese per cui evidentemente Mugnai ha una certa propensione e che in effetti, al di là della questione della manualistica, denota un collocamento filosofico che ci tiene a mantenersi distinto dalla tradizione italiana neo-idealista.

Se su questo la proposta di Mugnai può destare interesse e consenso, non altrettanto convince la proposta di operare il cambiamento a partire dai manuali scolastici. La strategia sembra essere quella di partire dai libri di scuola per poi giungere, con il succedersi delle generazioni studentesche, fino all’università e finalmente al mondo accademico di cui Mugnai nel suo libro traccia un quadro finale al vetriolo, tanto da togliere qualsiasi motivazione a iscriversi a Filosofia in Italia e prendere senza indugio la strada dell’estero, magari oltre-Manica o oltre-Oceano. Anche assumendo le posizioni di Mugnai, e in parte non gli si può dar torto, il pesce marcio inizia a puzzare dalla testa ed è velleitario pensare di recuperarlo scartando le parti esterne principiando dai libri di scuola.

Passare d’emblée a libri sistematici come quelli britannici, senza un profilo storico, corre il rischio di mettere in ulteriore difficoltà i docenti di filosofia che già soffrono dell’attuale situazione. Li si butterebbe nell’acqua alta senza sapere se sappiano poi nuotarvi. Quanti di loro sarebbero in grado di riorganizzare l’insegnamento su basi sistematiche appoggiandosi ai nuovi manuali? Quanti andrebbero incontro proprio a quella banalizzazione o riduzione pop che Mugnai denuncia nel suo libro? È un po’ quanto ci si proponeva di fare in Italia con l’introduzione della filosofia negli istituti tecnici.

Un cambiamento radicale in senso tematico, insomma, potrebbe fare più danni di quanti si propone di risolverne. In fin dei conti, con i manuali attuali il docente può – anzi deve – operare selezioni, scartare, integrare, approfondire, laddove necessario, e saltare, laddove opportuno. Ha la possibilità di scegliere percorsi a lui più congeniali, sulla base del suo orientamento filosofico e formazione. Cambiandogli il libro di testo e mettendolo di fronte – per dire – a una sezione di epistemologia da approfondire nell’arco di un mese, lui, laureato su Carneade, con zero esami che si avvicinino anche lontanamente alla filosofia della scienza, cosa può fare?

Lo stesso Mugnai, accanto al modello britannico, indica alcuni testi scolastici italiani che già vanno nella direzione auspicata. Oltre al già citato “Sinapsi”, vi sono “Argomentare” di Boniolo e Vidali, “Filosofia” di Massarenti e Di Marco, “Dentro la filosofia” di Bussotti e altri.

Se anche è la formazione scolastica quella da cui si voglia partire, per evitare lo scontro accademico e le anchilosate contrapposizioni tra analitici e continentali cui Mugnai non fa mai riferimento ma sembrano costituire il convitato di pietra, o si bombarda il quartiere generale, rimettendo in discussione il ruolo stesso del manuale di filosofia (oggigiorno lo si potrebbe fare, ma non senza aver predisposto un apparato di risorse alternative cui attingere), o si sceglie una via più graduale e moderata che, accanto all’introduzione della lettura di interi spezzoni di opere filosofiche, sappia operare per i manuali una bella dieta nell’indice degli autori, combinando studio tematico e storico, quel poco ma bene già richiamato in precedenza, dando spazio in tale riorganizzazione a questioni etiche ed epistemologiche (la logica forse può essere dirottata su matematica) che trovino il loro giusto riconoscimento insieme ai principali sistemi di pensiero.