Dire oggi il Dio di Gesù
Carissimi /e, vorrei condividere con voi alcune considerazioni su Luigi Sandri e il suo ultimo libro, "Dire oggi il Dio di Gesù". Siamo nei giorni in cui, in Trentino, ci interroghiamo sull'ennesimo femminicidio. Se avete la pazienza di leggere vedrete come sono rimasto colpito dalle parole di Fiorella, la mamma di Igor: "Non perdonerò mai mio figlio". In proposito vi propongo il titolo del Convegno organizzato a Trento, nel 2014, dal Centro per le Scienze Religiose della FBK: Come rispondete alla domanda: "PERDONO. Negazione o compimento della giustizia?" Le vostre risposte, a confronto, sono un contributo alla nuova cultura che stiamo cercando di elaborare, a fatica. Grazie per l'attenzione. Silvano Bert
Immagino di dialogare con Luigi Sandri, discutiamo sul suo ultimo libro – Dire oggi il Dio di Gesù – lo vedo già scuotere la testa…
Carissimo Luigi, la fede ha un perché?
Nella modernità siamo consapevoli che la natura e la storia si reggono su leggi autonome. Ce lo spiegano le scienze, con Galileo e Darwin, Einstein e Freud. In politica è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1789) ad affidare la sovranità non a Dio, ma all’uomo. Superata la concezione religiosa del mondo, del “non si muove foglia che Dio non voglia”, l’agnosticismo e l’ateismo diventano una ragionevole svolta culturale.
Ma allora ci sono ancora, oggi, motivi che inducono una persona a compiere il salto nella fede?
Nei giorni minacciosi del Covid, “sento che posso morire”, a conforto io leggevo con Laura il Salmo 18, “Con il mio Dio posso scavalcare muraglie“. Anche Gesù pregava Dio con i Salmi. Per un credente la fede, in ultima istanza, è la speranza che la morte non sia l’ultima parola. Sulla croce al buon ladrone Gesù dice: “In verità io ti dico: oggi sarai con me in paradiso” (Luca 21, 39) A Sigmund Freud che la riduce al bisogno psicologico di non scomparire per sempre, Hans Kueng risponde che se alla fine la fede si rivelasse un’illusione, “la mia vita è stata più felice con Dio piuttosto che senza”. È sulla “risurrezione”, sul “dopo morte”, che in un articolo di Carlo Molari su Rocca (4 / 2019) io ho incontrato per la prima volta John Shelby Spong, il teologo protestante con cui nel tuo libro, “Dire oggi il Dio di Gesù”, tu dialoghi e polemizzi. Sul post-teismo, una spiegazione, ho poi letto il suo “Perché il Cristianesimo deve cambiare o morire”, in cui domande e risposte inquietanti s’intrecciano.
Cambiamo punto di vista. O se invece, come la rosa di Silesio, la fede fiorisce perché fiorisce, è cioè se stessa perché è senza perché?
Se la fede dipendesse dalle sue spiegazioni, esse, – il logos – prevarrebbero, il primato spetterebbe alle ragioni della teologia e dell’apologetica. Il ‘senza perché’ è invece il modo per dire quanto, nel linguaggio cristiano, si esprime con il termine ‘grazia’. La ‘gratia gratis data’ significa che non sei tu ad avere la fede, ma è la fede ad avere te. In passato l’adesione a una comunità religiosa era, come la lingua, un aspetto dell’appartenenza a una società. Oggi, eredi degli anabattisti, condannati da cattolici e luterani, sperimentiamo che la fede non è di tutti, è anzi sempre più di una minoranza. Ma, nella tensione fra grazia e scelta, il credente è ancora invitato a dar ragione, con mitezza, della speranza che è in lui.
Nell’avviare il dialogo con te, mi sto ispirando a un lontano “Pensiero della settimana” di Piero Stefani, “Perché credi?” (2008). Me lo rileggo, di tanto in tanto, per riprendere fiducia sulla strada, senza certezze. La fede è una chiamata e un incontro. Talvolta io ne farei a meno, affaticato come sono nell’appartenere a una Chiesa cattolica, il “popolo di Dio”, dis-impegnata nel Sinodo a cui la chiama papa Francesco, e al vedere i cattolici dis-impegnati in politica, dove li chiama il Concilio Vaticano II nel tempo della democrazia.
Le verità dell’”altra parte”
Piero Stefani è anche il teologo che riconosce l’errore nella tradizionale traduzione del “mandato missionario” in Matteo 28,18-20. Gesù, infatti, non dice: “Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo” (come scrivi anche tu a pagina 31), ma “Annunciate il vangelo a tutte le genti, e battezzate quelli che lo accettano“. È riconosciuta cioè, fin dall’inizio, la legittimità di “un’altra parte” con cui confrontarsi e cooperare per umanizzare la storia. Sarà però lunga la storia per riconoscere l’errore dell'”extra ecclesiam nulla salus”. È l’impegno che oggi, come cattolici, dopo il Concilio Vaticano II, da posizione di minoranza, chiamiamo dialogo: ecumenico con le altre comunità cristiane, interreligioso con le altre comunità religiose, culturale con gli agnostici e gli atei. Anche quello fra teisti, neoteisti, post-teisti: fra J.S. Spong e Luigi Sandri. In un Convegno di Biblia, l’Associazione laica di cultura biblica, Romano Penna raccontò il fallimento di Paolo all’Areopago di Atene, quando l’apostolo, di buona cultura, motivato da una fede viva, vede gli ateniesi allontanarsi ridendo al sentirlo parlare di risurrezione. “Non è forse la prova – commentati io – che la fede è una proposta rivolta a tutti, ma non è di tutti?” Paolo lo riconosce anche nella sua prima Lettera ai Tessalonicesi.
Sul Regno n. 20/2023 è sempre Piero Stefani a notare che a Vestfalia, nel 1648, dopo trent’anni di guerra in cui cattolici e protestanti si combatterono come nemici assoluti (e in Europa i morti furono più numerosi che nelle due guerre mondiali), la pace fu possibile quando le trattative si aprirono all’ascolto dell'”altera pars”, dell’altra parte. Quando cioè le rispettive verità vennero rielaborate a fronte del bisogno di pace. A non firmare per l’accettazione del pluralismo cristiano nascente (“cuius regio eius et religio”), il germe della libertà religiosa, fu il cardinale legato del papa Innocenzo X. Quella che allora al papa parve una sconfitta, oggi è un programma da perseguire. Anche la perdita dello Stato pontificio, nel 1870, parve a Pio IX una catastrofe, mentre nel 1970, cento anni dopo, Paolo VI la considerò un evento provvidenziale. Nella storia la tensione tra verità e pace si presenta con cento facce. Pochi giorni dopo l’elezione di papa Francesco, fosti tu a esprimere la speranza che il papa venuto dall’Argentina rinunciasse allo Stato della Città del Vaticano. Oggi siamo invece ancora lontani persino dalla rinuncia ai privilegi del Concordato in Italia: il matrimonio concordatario e il passaggio dall’insegnamento confessionale e facoltativo della religione cattolica a quello laico, per tutti, di storia delle religioni.
La stessa Vestfalia è citata da Piero Stefani, pessimisticamente, nel suo articolo “lo spartiacque”, per dire quanto israeliani e palestinesi sono oggi lontani dal riconoscere nell'”altra parte” l’interlocutore con cui dialogare. Io penso, però, al tuo lontano “Gerusalemme città santa e lacerata”, e continuo a sperare. Mio figlio Francesco e la moglie Cherin lavorano con l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, ad Amman. Da non credenti sperimentano la Giordania, un paese in cui ci sono moschee e chiese, e nemmeno le sinagoghe sono lontane. In questa settimana io e Laura siamo impegnati in una “staffetta di digiuno”, organizzata dal Cantiere per la pace di Trento. Io vivo la tensione, ogni volta, nel parlare di pace nel “movimento” e nel “partito”. Che è la tensione fra l’indicare la meta, e farsi carico del cammino, tortuoso, accidentato, in salita. A Trento, mia figlia Chiara e il marito Franco hanno accolto con gioia Andrea, un bambino portato dal vento, uno spirito divino. Da laici hanno scelto di non battezzarlo, deciderà lui, da grande.
Verità e pace si abbracceranno,
giustizia e amore si baceranno.
(Salmo 85,11)
La guerra è forse il problema più drammatico con cui oggi l’umanità è chiamata a misurarsi. I fedeli nelle varie religioni, e i cristiani, innanzitutto. Tu ne parli a pagina 233: “la pazzia della guerra”. “Pazzia” è la parola usata anche da papa Francesco per condannarla, per dire quanto è orrenda e distruttiva. Qualche volta la parola è sfuggita anche a me. Se i contendenti fossero pazzi, è di bravi psichiatri che avremmo bisogno. Invece, nella storia, la guerra è tensione tra verità diverse: per questo la via della trattativa è difficile, ma rimane l’unica da perseguire, con pazienza, in ascolto dell’altra parte.
A pagina 241 tu citi monsignor Sviatoslav Shevchuk. È l’arcivescovo greco-cattolico ucraino che, in udienza il 25 gennaio 2023, a papa Francesco replicò: “Noi leader religiosi dobbiamo educare alla pace, ma non esiste pace senza verità e senza giustizia” (Adista 5 / 2023). Il vescovo cita così, senza nominarlo, il Salmo 85,11 in cui i quattro valori sono in tensione, perché nella storia non convivono spontaneamente. Il futuro del loro abbracciarsi e baciarsi ci impegna nella storia, ma sconfina nell’escatologia. Nell’enciclica Pacem in terris Giovanni XXIII ci ricorda, e così ne accresce la difficoltà, che oggi essi sono maneggiati in ‘libertà’. Chissà quante volte con questo salmo ha pregato anche Gesù del “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati Figli di Dio” (Mt. 5,9). e del “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt. 25 34). A questo “insondabile enigma” dei valori in tensione si richiama a pagina 178 la persona che ti è più cara, Giovanni Franzoni. Nel 1981 venne a Trento, e io lo presentai alla Festa dell’Unità nell’assemblea dedicata al referendum in difesa della legge sull’aborto. Anche in quell’occasione quel cristiano non rinunciò a parlare di “misericordia”, che è un’altra parola per dire “perdono”, cioè il culmine dell'”amore”.
Io ho già dato disposizione ai miei figli, Chiara e Francesco, che sul foglietto del mio funerale siano stampati i due versetti del Salmo 85. In un lampo dicono l’impegno e il limite della vita umana, e la speranza nella “vita eterna”. Non so se è questo il momento per citare la storia di madre Maria Skobtsova, che tu racconti a pagina 227, morta nelle camere a gas di Ravensbrueck. È il lager tedesco, sconosciuto a tutti i corsisti, che io ho visitato nel 2017, in occasione di un Convegno di Biblia a Berlino, nell’anniversario della Riforma di Lutero. Finora non ho trovato una guida turistica della Germania che ne segnali l’esistenza.
A confronto con John Spong: consensi e dissensi
Nel giorno dell’Epifania, nella mia parrocchia S.Antonio, a Trento, a celebrare un battesimo c’era un prete sconosciuto. Serenamente, senza suscitare proteste, ha spiegato che con il battesimo il bambino è liberato dal peccato originale. È anche per parole come queste che i giovani, appena aprono gli occhi, dalla Chiesa se ne vanno, sbattendo la porta. Quanto sia difficile, nella cultura cattolica, affermare la parità della donna, ce lo prova l’andamento del Sinodo in corso. Mi domando quanti trentini, “cristiani sinodali”, leggono su l’Adige il tuo Diario Vaticano. Il rifiuto della segreteria a chiamare te, a Trento, per un’assemblea introduttiva è stato deciso.
Oggi mi domando se c’è un qualche legame sotterraneo tra il ‘peccato’ attribuito a Eva e il femminicidio compiuto da Igor Moser sulla compagna Ester Palmieri, a Valfloriana, in Trentino. Sull’interpretazione di quel mito nel giardino dell’Eden penso che tu, io, e Spong, siamo d’accordo. Ma quanto le cose siano complicate lo prova Fiorella, la mamma di Igor, che dichiara che “mai perdonerò mio figlio”. Per lei il perdono non è il culmine dell’amore, ma la negazione della giustizia. Un convegno del Centro per le Scienze religiose della Fbk, a Trento, nel 2014, aveva per titolo proprio una domanda: “Perdono. Negazione o compimento della giustizia?” Vi parteciparono, insieme, fianco a fianco, Agnese Moro e Franco Bonisoli. In quell’occasione potei intervistare il brigatista che fece parte del gruppo di fuoco il giorno del sequestro del politico e dell’assassinio dei cinque uomini della scorta. Ne scrissi su L’Invito n. 234.
Il tuo dissenso da Spong è esplicito, “inquietante”, a proposito dei dogmi della Trinità e dell’Incarnazione di Gesù Cristo: “qui non siamo di fronte a miti, ma a due verità” (pagina 344). Ma tu stesso (pagina 339) riconosci che “un mito, seppure non sia un racconto storico, può avere un’eccezionale pregnanza per insegnare una verità profonda”. Al “Dio possente ma anonima energia” del post-teismo oltre-religioso tu contrapponi il “Tu, realissimo e insieme misterioso, lontanissimo e vicinissimo” (pagina 335). In morte di Carlo Molari, su Rocca n.10/2022, Paolo Gamberini spiega il post-teismo proprio come il superamento della “visione dualistica della realtà”, come “Dio presente in tutte le creature”, “la potenza assoluta che fa sì che le cose si facciano”.
Bisogna curare assiduamente l’educazione
civile e politica
(Gaudium et Spes n.75)
Del post-teismo mi lascia perplesso la concezione della storia. Nel capitolo XIII del tuo libro é Spong a prendere la parola. L’urgenza del post-teismo è giustificata come superamento del teismo “idolatria umana”. Prosegue con “l’idea di un Dio nell’alto dei cieli in bancarotta”, con “la croce come sacrificio per i peccati pura barbarie”. Mi pare un linguaggio sprezzante verso chi è vissuto prima di noi, in altre culture. Quando Spong parla di “schiavitù” sembra quasi che i cristiani potessero abolirla e non l’hanno fatto. Ma la schiavitù nel diritto romano era un istituto del diritto delle genti (jus gentium), in quanto praticato da tutti i popoli, immodificabile, cioè parte della civiltà umana, non solo romana. Quando Paolo scrive: “non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché tutti sono uno in Cristo Gesù” (Galati 3,28), l’unità è affermata nell’ordine trascendente, non nella società del tempo. Perché quelle parità si realizzino nell’ordine sociale ci vorranno secoli, lo riconosce il giurista Antonio Cassese (“Voci contro la barbarie”, pag. 8).
Il Cristianesimo fin dalle origini non si presentò come una teoria politica. Il discepolo politicizzato era Giuda, uno zelota che tradirà Gesù quando si rese conto che il maestro non voleva uno scontro armato con l’Impero romano. Anche le parole dette da Gesù nell’episodio del tributo, “Rendete a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio” (Marco 12,17), che noi interpretiamo laicamente come la distinzione tra religione e politica, tra Chiesa e Stato, daranno frutti nel tempo. Giovanni Miccoli vi riconosce il primato di Dio sull’uomo ma, all’interno di quel limite, la valorizzazione della politica. Nell’antichità non era concepibile uno Stato il cui benessere non dipendesse dal beneplacito delle potenze ultraterrene. Su questo pagani e cristiani erano d’accordo. Già Augusto, il primo imperatore, è “pontifex maximus”, cioè il sacerdote supremo a cui sta a cuore la pax deorum.
Anche tu accusi Costantino di operare per “interessi di potere politico”. (pagina 25). Ma Costantino, anche dopo la svolta del 313, mantiene il titolo di “pontefice massimo”, deve provvedere che il culto di Dio (o degli dei) si svolga nel modo giusto. Il suo preoccuparsi delle vicende interne della Chiesa, anche convocando il Concilio di Nicea, “non fu dunque unicamente volontà politica di potere, ma egualmente il senso di responsabilità affidatogli da Dio per il corretto comportamento dei suoi sudditi”. È una citazione di Bernhard Koetting, dalla Storia ecumenica della Chiesa, con introduzione di Alberto Melloni (Queriniana 2009). Non possiamo cioè giudicare il passato con i criteri di laicità che faticosamente usiamo oggi.
Questo è un confronto fra te e me che viene da lontano. Il titolo della tua storia, “Dal Gerusalemme I al Vaticano III. I concili tra Vangelo e potere” (Editrice Il Margine- Trento 2013), dopo la mia recensione, ha suscitato un ampio dibattito proprio sul concetto di “potere” (L’Invito n. 235). Alla domanda di lingua, “Il potere è positivo, negativo, o neutro?”, hanno risposto in molti. Papa Francesco era appena stato eletto, dal “potere” di un conclave dei cardinali. Al tuo auspicio di un concilio che si lasci per sempre alle spalle l’età costantiniana, per “una Chiesa finalmente libera dal potere e appassionata solamente del Vangelo”, io dichiaravo le mie perplessità.
Oggi, a distanza di dieci anni, la Chiesa è impegnata nel Sinodo. Che è anche un’impresa di riequilibrio dei poteri, fra papa e vescovi, fra clero e laici, fra uomini e donne. Nel tuo ultimo Diario Vaticano (l’Adige, 15.1.2024) racconti de “l’Africa contro il papa” a proposito delle “benedizioni ai gay”. Oggi la domanda sul ‘potere’ è: se la Chiesa ha fatto propria nella storia la cultura dell’impero, della monarchia assoluta, del diritto pubblico elaborato dagli stati, perché non può accettare la democrazia?
È il Concilio Vaticano II con la Costituzione pastorale Gaudium et spes n.75 che impegna i laici alla partecipazione politica. “Tutti i cristiani devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica”, “nella legittima molteplicità e diversità delle opzioni”, “nel diritto, che è anche dovere, di usare del proprio libero voto per la promozione del bene comune”. Sul “bisogna curare assiduamente l’educazione civile e politica, oggi tanto necessaria, soprattutto per i giovani” posso confidarti che il prete, a mio parere il più colto della diocesi di Trento, mi ha ringraziato recentemente di avergli ricordato l’art. 75 che lui aveva completamente rimosso?
Chiamiamo all’impegno in una fase storica di preoccupante crisi della politica. L’astensionismo è il sintomo più evidente. L’immagine che ne viene data dai media è quella di una “lite fra politici” per il “potere”, non di un conflitto tra idee diverse di società, in cui il potere non è il fine, ma il mezzo. Chi ha la nostra età sente il dovere di fare un bilancio della propria vita. Io ne ho scritto ne “Il compito di domani. Cronache dalla Chiesa di Trento nel dopo-Concilio” (2013). La prima volta ho votato per la DC, per la stessa ragione che il giorno succede alla notte. Poi il ’68, il Concilio, il lavoro a scuola, i referendum sul divorzio e sull’aborto, la militanza attiva nel Pci per quindici anni, il dibattito sul rapporto fra Cristianesimo e marxismo. Poi gli anni in disparte. Fin quando, sulla soglia degli 80 anni, decido di iscrivermi al Pd quando la Lega-Salvini cresce d’un balzo da un consigliere a 14, con l’obiettivo di salvare il Trentino dall’invasione degli stranieri, dai musulmani innanzitutto.
È ancora Piero Stefani a spiegarci che la dottrina della Chiesa sull’immigrazione spinge a sinistra, quella sulla sessualità e sulla famiglia a destra. Il “Dio, Patria, Famiglia” non è uno slogan sepolto per sempre, come tu e io credevamo.
Eppure, da cristiani, siamo invitati a dare ragione ogni giorno della speranza che è in noi.
Grazie del tuo libro, che fa pensare. Un caro saluto.
Silvano Bert