Storie dal 42esimo Festival de Almada

Almada crocevia d’Europa: Handke, Zugzwang, Extra moenia

Piccole pagliuzze dorate catturano e riflettono la luce del sole baluginando improvvise tra sabbia e onde nell’infinito arco di spiaggia, falesie bruno rossastre e verdeggiante macchia mediterranea che è la splendida Costa da Caparica. È in questi frammenti simili ad infinitesimali coriandoli metallici che sembrano precipitare e sedimentarsi la storia ed il nome della città di Almada, derivato dall’arabo “al-ma’dan”, che significa “la miniera” o “il minerale”, un toponimo che richiama immediatamente la scoperta in zona di un giacimento aurifero.
Chi come noi si sia trovato ad avere il privilegio e l’onore di partecipare per la prima volta allo storico Festival de Almada, giunto quest’anno alla sua 42esima edizione, ha subito la netta sensazione che un filone del metallo più nobile sia tuttora presente e vitale e che si ramifichi in città innervandone i luoghi e gli abitanti. C’è una voglia autentica di essere comunità che si respira nelle ordinatissime file per l’attesa degli spettacoli, dentro le sale, tra i moltissimi giovani coinvolti nell’organizzazione e durante le cene collettive di spettatori, addetti ai lavori, staff e stampa che si radunano e si mescolano in lunghe tavolate comuni allestite nel cortile dell’Escola D. António da Costa, accanto al Teatro Municipal Joaquim Benite. Ci hanno ricordato strisce di sabbia e venature di roccia stilizzate anche i rettangoli alternatamente gialli e rossi delle tovaglie e della vicina biglietteria, accompagnati da un verde che richiama la vegetazione sia nella cartellonistica che nella grafica del ricco materiale informativo a stampa, impeccabilmente messo a punto dalla redazione. Nell’esplanada è posizionato anche un grande palco destinato ad accogliere proposte musicali diverse per ciascuna serata del Festival, selezionate per intrattenere piacevolmente ma anche con l’obiettivo di costruire un grande affresco complessivo delle sonorità coloniali portoghesi.
Eppure non è con piccoli bagliori intermittenti ma con grandi presenze monumentali che Almada si presenta allo sguardo di chi arriva dall’aeroporto di Lisbona. Vediamo la colossale statua del Cristo Rei, che con i suoi 28 metri di altezza domina il promontorio sul mare e si staglia contro il cielo azzurro con le braccia spalancate in segno di benevolenza e protezione e ci muoviamo su infrastrutture poderose come il Ponte 25 de Abril: oltre 2000 metri di intenso color granata, delfini dipinti a pelo d’acqua sulle gigantesche basi in cemento dei piloni, l’incessante rumore di fondo del traffico che scorre sul ponte sospeso più lungo d’Europa. È un frastuono antropico che si propaga e si perde nel grande scenario naturalistico dell’estuario del Tago, sulle cui opposte sponde Almada e Lisbona si distendono e si fronteggiano con i rispettivi porti fluviali, appena prima che le acque del fiume e dell’oceano si mescolino.
E così, nel microcosmo del Festival, abbiamo ritrovato la magniloquenza di un’organizzazione impeccabile, per quanto articolata e complessa, e le infinite pagliuzze dorate, i minimi dettagli quotidiani in grado di concentrare e amplificare la luce generale. Costruire una dimensione corale, uno spazio comune che sia materiale ed immateriale al tempo stesso richiede non solo dedizione e cura infinite ma anche la precisa volontà di fissare anno dopo anno l’ordito di una tradizione che stringa il tessuto delle generazioni, tenendole vicine le une alle altre: un obiettivo alto, che non consente di lasciare nulla al caso. È questa la politica culturale che perseguono congiuntamente la Câmara Municipal de Almada, quest’anno nella persona della Presidente Inês de Medeiros, e la Compagnia de Teatro de Almada, con il direttore artistico Rodrigo Francisco, che cura e promuove il Festival. Anche il grande cantiere aperto lungo il Cais do Ginjal, vicino al porto, ci parla di una città fortemente desiderosa di rinnovare il suo volto e di riqualificare i propri spazi urbani. Ed è così il dispiacere di non aver fatto in tempo a vedere la lunga sequenza di edifici abbandonati coperti di murales, ormai del tutto smantellati, lascia trapelare tra le ruspe e le transenne l’immaginazione e la curiosità di ciò che ancora deve prendere forma.
Tradizione, rinnovamento, apertura. È su questa scia che abbiamo scelto di proporre in questa rassegna il resoconto di tre spettacoli prodotti da tre diverse nazioni: uno portoghese, uno francese ed uno italiano. Le tre pièces ci sono apparse legate da un filo rosso, il tema della dicotomia esterno/interno, il tema della casa. Una casa che ora è scossa nelle fondamenta dal terremoto di un trauma che l’ha divelta, ora è in eterno instabile pericolare ed infine è assente.

Il primo spettacolo di cui vogliamo raccontare è il portoghese Um adeus mais-que-perfeito, prodotto proprio dalla Compagnia teatrale Almadense e visto nella Sala Experimental del Teatro Municipal Joaquim Benite. Letteralmente ‘un addio più che perfetto’ è il più celebre romanzo di Peter Handke, scritto nel 1972 all’indomani del suicidio della madre, tradotto in Italia con il titolo Infelicità senza desideri. Il testo, fortemente e programmaticamente auto-biografico, o meglio ancora auto-analitico, scaturisce dalla necessità apertamente dichiarata dall’autore di riflettere su quanto accaduto attraverso la scrittura, per poterlo fissare ed elaborare. L’idea di fondo di questa produzione è quella di travalicare gli intenti dell’autore stesso, rendendo possibile per il fruitore accedere addirittura alla visualizzazione plastica del soliloquio interiore e del tentativo di auto-cura del celebre Premio Nobel in seguito al trauma vissuto. È dunque nella messa in scena a cura di Teresa Gafeira che si cerca il salto di qualità e di senso, mentre il testo viene sostanzialmente tradotto e adattato con la massima fedeltà al dettato originale. Sulla scena è allestito uno spazio domestico ibrido, nel quale manca una distinzione netta tra interno e esterno. A destra e a sinistra due metà asimmetriche e sfalsate di quella che un tempo doveva essere una grande vetrata in legno verniciato crema, vicino a ciascuna un tavolino con sedia o poltrona, al centro un grande vuoto attraverso il quale traguardiamo la parete di fondo ed uno schermo sul quale passano video che ci portano più fuori che dentro (radure, sentieri, boschi, fronde, chiome, erba, acqua), a terra alcune lastre di parquet di un pavimento frammentato appaiono tra ciuffi d’erba e sassi, tutto sembra divelto ma fotografie, ciotole con la frutta ed altre suppellettili sono ancora ordinatamente posate su ripiani e tavoli. In questo spazio incerto e doppio anche il monologo di Handke cambia partitura e diventa un dialogo. In scena ci sono due attori diversi (Duarte Guimãraes e Pedro Walter) ma simili per aspetto fisico ed età ed abbigliati in maniera identica. È affidato alle loro voci, ai loro scambi, ai loro movimenti nello spazio il racconto di lei, di quella madre che pur essendo spezzata dal dolore, dai sogni infranti, dalla fatica di una vita che fin dall’esordio non le era mai somigliata aveva generato e cresciuto un figlio intero, solido, talentuoso. Intero almeno fino al suo suicidio, al trauma senza redenzione e senza ritorno che svelle le mura, frantuma i vetri, spalanca abissi interi nel pavimento. Lei è forse tornata alla terra, al cielo, alla luce, a quella dimensione panica della natura evocata dalle immagini al centro del vuoto, è tornata al tutto, in una parola. Al figlio non resta che vagare fuori e dentro di sé, camminando sulla riva di un vuoto nulla, unico interlocutore possibile di se stesso, unico a conoscerla abbastanza, unico nel quale lei riviva ancora.

Con il secondo spettacolo scelto ci spostiamo dal dialogo introspettivo e dall’analisi psicologica a un teatro senza parole, da una dimora sventrata dalla tragedia ad una casa che si comporta come un oggetto dotato di vita propria, che si muove, si sposta, si trasforma incessantemente così come tutti i disparati oggetti che contiene. È Zugzwang il titolo della pièce messa in scena sul palco grande della Escola dalla compagnia francese Le Galactik Ensemble, affiatato manipolo di cinque artisti di formazione circense che esplorano le potenzialità del corpo e del movimento proponendo un teatro che è fisico fino al parossismo tra salti, corse, rincorse, collisioni, scivolate, urti, arrampicate. Il titolo, molto (e forse troppo) ambizioso, è lo specifico termine tedesco che descrive quella situazione della partita di scacchi nella quale un giocatore è costretto a muovere perché non può saltare il turno, ma sarà danneggiato da qualsiasi mossa che sceglierà di fare o addirittura si metterà definitivamente in scacco matto. Da subito gli attori si muovono in una scena ingombra, una torre di mobili impilati sulla sinistra e una stanza sulla destra, un salotto con tavolo, sedie, quadri, finestre e soprammobili che i cinque allestiscono e poi distruggono in una sequenza concitata e frenetica di gesti, per poi ricostruirne da capo una nuova con altri moduli ed altri oggetti. In uno spazio che cambia forma e si muove continuamente in modo imprevedibile e paradossale, in cui non vi è nulla di ‘immobile’ risulta impossibile anche ‘mettere a posto’, costruire, collocare gli oggetti in un punto prefissato: non c’è mossa che possa essere calibrata correttamente per intensità e forza in questo divenire continuo in cui le distanze sono elastiche, indefinibili a priori, irrazionali. È una grande Zugwang esistenziale e cosmica, in definitiva, per tornare alla metafora scacchistica, una condizione in cui lo spazio, il tempo ed i loro abitanti sono talmente incerti da rendere inefficace qualunque mossa. E mentre tutto frana e si frammenta lo spettacolo non riesce però a decollare mai verso questa complessità promessa e rimane sempre arenato alla superficie, alla collisione accidentale di un non senso contro l’altro.

Extra moenia è il terzo spettacolo che abbiamo selezionato per questa rassegna, produzione italiana della Compagnia Sud Costa Occidentale di Emma Dante, visto sul palco grande dell’Escola. Il testo propone una lunga rassegna di personaggi e situazioni che ci portano fuori, fuori dalle mura, fuori da casa, fuori dalla patria, servendosi a questo scopo di ben quattordici attori in scena e di complesse scenografie di forte impatto visivo. L’impianto è quello di una grande coreografia, uno sciame di individui che si muove costruendo diversi quadri narrativi giustapposti l’uno all’altro, tenuti insieme da movimenti fluidi e dal meccanismo iterato della vestizione/svestizione, del travestimento. Al variare degli abiti variano anche le identità, i contesti, gli scenari, le storie, trascolorando l’uno nell’altro. Dai passeggeri addormentati di un convoglio notturno che prima si spogliano sulle note di Bella ciao e poi si coprono con pesanti cappotti per raccontare il freddo che faceva nella notte in cui uno di loro, un giovane uomo, era salito sul barcone per emigrare dal Congo, ci spostiamo alla voce e al fischietto di un ferroviere di Trenitalia ed è così che dai ritardi, dai binari e dai divieti di sicurezza si arriva in dissolvenza ad un’arringa contro le negazioni che limitano i diritti umani e civili. Il focus si sposta dalla vicenda di una studentessa iraniana a quella di una profuga ucraina, dai bambini che giocano a pallone nelle strade di Palermo sulle note di Alors on danse alle vicende quotidiane delle casalinghe, all’identità tra ‘storia’ e ‘storia della guerra’ promossa da un militare innamorato della sua professione, alla guerra stessa ed ai suoi orrori visualizzati attraverso la violenza di uno stupro di gruppo, passando per la religione, il matrimonio ed infine il tema delle migrazioni e delle morti in mare, che ci idealmente ci riconsegna sulle note della Santissima dei naufragati a quel viaggio dal Congo già evocato inizialmente. Nel complesso lo spettacolo ci è sembrato una rassegna quasi enciclopedica, un catalogo, una carrellata, un sorvolare dall’alto su tutte quelle fattispecie della vita nelle quali si rende evidente l’esser gettati fuori nel mondo, condizione che ci caratterizza sia come singoli che come collettività. Questa riflessione piuttosto algida e cerebrale sul concetto di “gettatezza” come dimensione strutturale dell’esistenza umana ci ha lasciati però con un desiderio inappagato di empatia e di calore, di vicinanza, con la voglia di vedere meno per poter sentire più profondamente, di rallentare il volo per poter planare e posare lo sguardo.
Crediti fotografici Extra moenia: Rosellina Garbo