Perfect days

Nel 1959 Roman Polanski realizza come saggio di diploma alla scuola di Ɫodz Gdy spadaja nieba anioly (t.l.: La caduta degli angeli), un corto di 22 minuti in cui l’anziana protagonista lavora come addetta in un gabinetto pubblico, compiendo i gesti che ogni mattina il mestiere le impone: aprire l’acqua, spargere il disinfettante, pulire il pavimento… In seguito assistiamo al passaggio di una varia quanto prevedibile umanità in bianco e nero, da un ubriaco portato via dagli agenti a un omosessuale in cerca di compagnia. Ma i flash-back a colori ci trasportano in un altro tempo, nei ricordi della vecchia che vanno a costruire una sorta di epitome della storia polacca. Un po’ sulla stessa falsariga, nel 2006 l’ungherese Agnes Kocsis dirige Friss levego (t.l.: Aria fresca), su una donna che gestisce una latrina, per questo ossessionata dal tanfo che si porta a casa e che invano cerca di eliminare con l’uso di spray deodoranti.

Non sappiamo se Wim Wenders e il suo cosceneggiatore Takuma Takasaki conoscano questi due titoli e ne abbiano tenuto conto nella scrittura e nella realizzazione di Perfect Days.  Sta di fatto che anche il protagonista del film, Hirayama (un magnifico Koji Yakusho, miglior attore a Cannes 2023) di mestiere fa l’addetto ai gabinetti pubblici. Siamo nella Tokyo di oggi, quindi anche in questo settore la tecnologia ha cambiato le modalità d’uso. Il regista tedesco sceglie un approccio minimale alla narrazione, fondandola su un’apparente ripetitività di gesti e situazioni. Così, Hirayama si alza quando non è ancora giorno fatto, si lava i denti, sistema i baffi, esce a prendere una bibita dal distributore automatico davanti a casa. Poi carica gli attrezzi sul suo van e parte per il centro. Ogni volta la camera car che descrive il viaggio è ritmata, in maniera un po’ facile anche se certo efficace dal punto di vista spettacolare, da un grande successo dei tempi andati, da House of Rising Sun degli Animals a The Doc of the Bay di Otis Redding, registrati su anacronistiche cassette a nastro (a casa Hirayama ascolterà, sempre con la stessa tecnologia, quel Perfect Day di Lou Reed che, al plurale, dà il titolo al film). Ci si sofferma sui dettagli del lavoro, sugli incontri occasionali (un ubriaco dalle urgenti necessità, un bambino che è sfuggito alla madre nascondendosi nella toilette) ad esso legati e sulla pausa sandwich al parco, occasione per raccogliere piantine da aggiungere alla collezione domestica oltre che per fotografare gli alberi e un senzatetto che improvvisa una danza, il tutto nel bianco e nero di una Olympus a pellicola, strumento ancora una volta obsoleto. Poi, terminato il lavoro, Hirayama si lava in un locale pubblico, va a mangiare lo stesso cibo nello stesso locale a buon mercato, passa in una lavanderia a gettone e va a curiosare in una libreria (all’inizio lo vediamo leggere Faulkner, verso la conclusione acquista un volume della Highsmith).

Come in una composizione di Terry Riley – un minimalista, appunto, sia pure di altra disciplina – la narrazione si allarga progressivamente in maniera quasi impercettibile: a un giovane collega che ha bisogno di denaro per tentare invano la conquista di una ragazza, a una nipote fuggita di casa che si rifugia in quella dello zio, a una signora che gestisce un locale di un certo tono in cui Hirayama si reca periodicamente e per la quale si indovina provi un sentimento, probabilmente ricambiato, all’ex marito di lei gravemente malato col quale finisce per simpatizzare disquisendo sullo spessore delle ombre. Più in generale – ed è forse l’aspetto di maggiore interesse – all’emergere del non detto sul protagonista, persona colta e presumibilmente di famiglia benestante, e alle sfuggenti motivazioni della sua scelta di vita, alla quale fa cenno la sorella venuta a recuperare la figlia. Su tutta la costruzione wendersiana aleggia in maniera evidente l’abituale nume tutelare di Yasujiro Ozu, anche se il regista giapponese, maestro dell’ellissi, non si sarebbe mai speso in un paio di quelle scivolate pretenziose quanto banalmente esplicative (il dialogo in bicicletta tra il protagonista e la nipote, quello lungo il fiume con l’uomo condannato da un tumore) che costituiscono un po’ il limite del cinema dell’autore di Il cielo sopra Berlino. E se il finale, quel (troppo) lungo primo piano di Hirayama che passa dalla serenità al pianto, constatazione dell’illusorietà dei suoi giorni perfetti, non può non richiamare quello, indimenticabile, di Tarda primavera, finisce per segnare anche lo scarto. Nessuna forzatura, infatti, nel capolavoro di Ozu, dove un rapido e soffice montaggio trascorre dal primo piano sul volto del padre interpretato da Chishu Ryu, alla buccia di mela che cade, alle lacrime che quasi si intravedono solo per un attimo, subito pudicamente abbandonate a favore dell’immagine del mare.

In conclusione, ci sia permessa una breve osservazione su una singolare coincidenza. Due settimane fa ci era capitato di ascoltare, in Foglie al vento di Aki Kaurismäki, Les feuilles mortes in finlandese. Qui, dopo esserci per l’ennesima volta commossi all’esecuzione del classico House of Rising Sun da parte della voce di Eric Burdon con l’entusiasmante a solo di organo elettrico di Alan Price, ne abbiamo conosciuta una in giapponese, per voce femminile e chitarra, che va ad aggiungersi a tante altre, certo più illustri, come quelle di Leadbelly e Woody Guthrie, Dave Van Ronk e Bob Dylan.