Le cinque rose di Jennifer

Amore e morte è il binomio inossidabile e sempreverde sul quale le civiltà di ogni tempo e latitudine hanno tessuto e ricamato lungamente, amaramente, ossessivamente. Nel testo di Annibale Ruccello è un mazzo di fiori, un mazzo di cinque rose rosse, a dare forma visibile all’interferenza tra la dimensione funebre e la passione d’amore. Diventiamo spettatori della vita di Jennifer, travestito napoletano ormai non più nel fiore degli anni, proprio nell’istante in cui le cinque rose entrano in casa insieme a lei, nel suo minuscolo basso. La scena è allestita a cura di Paolo Calafiore all’interno del Saloncino del Teatro della Pergola di Firenze, nella vasta area antistante il palcoscenico.




L’abitazione è un cubo di spazio alluso da due pareti, uno spigolo ed un pavimento, un cubo in parte fisico ed in parte immaginato, calato all’interno di un ambiente molto più vasto e aperto che squadra la finzione da ogni lato e la amplifica come una eco. Un vano minimo che si impone in quanto spazio autonomo e significante anche grazie a cromatismi squillanti e morbidi al tempo stesso, ai contrasti caldo-freddo tra i gialli curcuma di pavimento e pareti e l’azzurro delle lenzuola, c’è un rosa pastello per il mobiletto della toilette, un bianco mediocrità per il tavolo e le sedie: su questo fondale spicca il rosso intenso delle rose in vaso, appoggiate vicino alla piastra elettrica, accanto ad una cornice senza foto, con la stessa coerenza con la quale potrebbero essere posate sul marmo di una tomba.
Ma la vita all’interno del cubo ha tonalità opposte a quelle del golfo: non vi penetra certo la luce del sole e del mare, tanto meno quella dell’amore. Una radio e un telefono abitano in casa in qualità di esseri viventi dotati di identità e di volontà proprie. Un guasto sulla linea, un’interferenza mai risolta, costringe Jennifer ad una vita da destinataria di chiamate che non sono per lei, erroneamente convogliate sul suo apparecchio ma in realtà tese a raggiungere altri travestiti del quartiere, altri appuntamenti. Ad ogni interlocutore Jennifer chiede notizie, elargisce confidenze, scandisce a memoria il numero telefonico della persona richiesta, racconta di essere in attesa della telefonata di Franco, ingegnere di Genova perdutamente innamorato di lei e fortemente deciso a sposarla. Radio Cuore Libero fa da contrappunto alla sua eterna attesa con le più belle canzoni d’amore di Mina, Patty Pravo, Ornella Vanoni.
Tra una canzone una telefonata e un’altra canzone emerge carsicamente dalla radio la voce della cronaca ed aggiorna al rialzo il numero dei cadaveri che si registrano in quelle stesse ore nel quartiere dei travestiti. Delitti tutti uguali tra loro, ripetitivi sia dal punto di vista tecnico che scenografico, imputati ad uno stesso maniaco, travestito anch’egli, che finisce le vittime con un colpo di pistola in bocca. Jennifer cambia stazione, canta e balla dentro la stanza, travestendosi con le movenze tipiche della cantante che di volta in volta è proprietaria della voce. Nella superba interpretazione di Geppy Gleijeses la condizione di radicale solitudine della protagonista emerge via via in modo sempre più vivido e raggiunge l’acme nella dialettica con un altro travestito, Anna, che si porta frettolosamente a casa sua nella speranza di intercettare una telefonata particolarmente agognata ma puntualmente deviata sul numero sbagliato.
Cifra distintiva di questa produzione (Dear Friends S.R.L.) è il fatto che ad affiancare Geppy sia proprio suo figlio, Lorenzo Gleijeses. L’interazione tra i due, padre e figlio entrambi travestiti, sprigiona un dialogo magnetico e allucinato tra le due donne, tutto giocato tra passato e futuro, sul filo della memoria e delle attese. Anna e Jennifer, come ogni essere umano, desiderano amare ed essere amate, pur sperimentando ogni giorno impossibilità, frustrazione, disillusione. Si raccontano rimanendo ciascuna sull’orlo del proprio abisso, camminano sul bordo dipingendo con la voce panorami di sole e di mare che alterano programmaticamente la loro storia, travestono la memoria di sé contraffacendo fatti, persone e i propri stessi corpi (raccontando finanche di tumori al seno, di mestruazioni, di uteri asportati, di figli partoriti) nel tentativo estremo di dare forma ad un biografia che risarcisca almeno in parte il loro destino di corpi in vendita, usati, pagati e cercati ancora e sempre con telefonate che non sono mai quella giusta, nel tentativo di calare l’ideale in una realtà di segno opposto. A rappresentarle pienamente è l’archetipo della morte in vita, cristallizzata nella solitudine assoluta della loro piccola tomba senza luce e senza calore, senza conforto alcuno se non quello dell’attesa illusoria di una dimensione romantica che possa finalmente riscattare un presente nel quale è solo la colonna sonora radiofonica a fornire un orizzonte sentimentale. Ma se l’assenza dell’amore equivarrebbe già di per sé all’assenza di vita, c’è pur sempre una morte ulteriore, una morte elevata alla seconda, e questa è proprio il mercimonio dei corpi, nel quale i gesti dell’amore, svuotati del senso che li invera e li rende autentici, diventano strumento di distruzione e morte. In questa vita, come direbbe l’amata Mina, l’importante è finire.