L’azione del silenzio

“Luogo sottile” per eccellenza è la cima del monte, l’altura, la vetta, quel punto del cosmo in cui lo spazio fra cielo e terra si assottiglia, la distanza tra umano e divino si accorcia e la percezione del sacro pervade i nostri sensi mentre la vista spazia libera verso l’ultimo orizzonte e l’aria si fa fresca e rarefatta. La fatica del cammino, della salita, dell’ascesa è metafora della vita umana tutta intera, di un pellegrinaggio che ha come traguardo Dio. Così è anche per il Monte Acuto, o Monte Santo, sulla cui sommità è costruita la Certosa del Galluzzo, località poco a sud di Firenze. Per quanto forti giungano della città vicina i suoni, i rumori, le musiche estive di questa notte di luglio, Acuto e Santo sono due aggettivi che qualificano perfettamente questo luogo proteso verso l’alto che da secoli ospita una ricchissima vita spirituale e che oggi è custodito dai membri della Comunità di San Leolino. All’interno degli spazi monumentali della Certosa abbiamo assistito alla XIX edizione del viaggio teatrale itinerante L’azione del silenzio, che la Compagnia delle Seggiole mette in scena per un massimo di cinquanta spettatori per ciascuno dei due turni previsti nelle cinque serate in cui lo spettacolo è in calendario.






Il viaggio si appoggia su un testo di Giovanni Micoli ed è in primo luogo “itinerante” perché si snoda attraverso un vero e proprio percorso di visita guidata, lungo il quale il pubblico sosta per ricevere da un erudito in abito certosino informazioni di natura storica e storico-artistica, sulla spiritualità, sul monachesimo, sugli uomini illustri che affidarono a queste solide mura la propria sopravvivenza oltre la morte, attraverso la memoria di sé che esse sono in grado di garantire presso i posteri. Vengono così delineate davanti alla facciata della chiesa le peculiarità del carisma certosino, caratterizzato dalla ricerca di una sintesi tra vita monastica comunitaria ed esperienza eremitica, e le avventure del fondatore, Niccolò Acciaioli, figura chiave della vicenda politica tra Firenze e Napoli nel pieno Trecento. In un tempo ben precedente alla posa della prima pietra, avvenuta nel 1342, egli aveva sognato questo monastero come luogo identitario e mausoleo dinastico, posto in alto affinché costituisse agli occhi di tutti la manifestazione visibile della sua magnificenza. E ancora, seduti negli stalli lignei del coro dei monaci, ascoltiamo risuonare sotto le volte a crociera un Salve Regina in antico canto gregoriano ed apprendiamo le vicende architettoniche dell’edificio e le fasi della sua decorazione pittorica; nella Sala del Capitolo si narra la biografia di don Leonardo Buonafede, qui sepolto in una tomba terragna, grande benefattore della Certosa ove promosse vasti e importanti rifacimenti durante il Quattrocento ed infine, visitando una delle celle, immaginiamo la giornata del monaco e misuriamo gli spazi e la forma della sua vita quotidiana.
Ben presto però l’itinerario si fa anche “teatrale”, non appena una storia inizia a svolgersi parallelamente al discorso didascalico che funge da cornice e al quale ritmicamente si alterna. Il primo quadro è una ragazza in nero che giunge in chiesa all’improvviso, parlando con Dio, furente perché l’uomo che ama ha scelto di farsi novizio alla Certosa, preferendo Dio a lei, scegliendo “il meno umano e il più divino degli amori, l’amore dei santi”. In tre quadri principali, tra sala capitolare e chiostro grande, viene delineato il percorso di vita claustrale di questo giovane uomo senza nome, affinché nella sua identità possa confluire quella di ogni creatura umana. Ad essi corrispondono tre momenti chiave della sua parabola esistenziale: l’accoglienza da parte del maestro dei novizi, il termine dei primi due anni di noviziato ed infine la piena maturità, che si avvia ormai all’ultima età della vita.
Non diversamente da quanto accade fuori dalla pace del chiostro, non diversamente da qualsiasi altra vicenda umana, anche il percorso di vita del certosino è segnata dal dubbio, dal rovello continuo, dalle incertezze. Egli vive sì in una cella ma, ci dice, essa non è molto diversa da quelle che abitiamo noi, perché anche la nostra vita è fatta di un passaggio continuo da una prigione all’altra, per quanto non ne siamo quasi mai consapevoli. Anche chi ha scelto il mondo e la libertà è continuamente indeciso, dilaniato, strappato da opposte pulsioni che lo lacerano e che gli fanno domandare chi egli sia davvero, quale sia la sua vera identità.
Il viaggio all’interno della Certosa non offre una risposta netta a questa domanda, ma una possibile dimensione in cui vivere la domanda stessa. Solitudine e silenzio sono i due assi cartesiani nei quali si inscrive la vita monastica e costituiscono l’unica condizione nella quale è possibile stare veramente in compagnia di noi stessi e con la parte più divina di noi, facendo il vuoto nella mente e sgombrando lo sguardo da ogni velo, perché “solo quando il linguaggio scompare si comincia a vedere”. L’azione del silenzio è dunque quella di trasformare lentamente l’uomo da deserto in giardino, è rigenerarlo a vita nuova, è farlo sbocciare pienamente e finalmente fiorire.