Io Capitano
Seydou e Moussa, due cugini sedicenni di Dakar, hanno il mito dell’Europa. Nonostante l’opposizione della madre del primo, una volta messa da parte una discreta somma di denaro lavorando come manovali o carpentieri, partono alla chetichella per il Nord. Entrano in Mali con un passaporto falso poi, in Niger, comprano un passaggio per la Libia attraversando il Sahara a bordo di un camioncino stipato di profughi. Ma i trafficanti li obbligano a percorrere a piedi l’ultima tappa nel deserto, consegnandoli infine nelle mani della mafia libica, che sottopone a torture quelli che rifiutano di farsi mandare dei denari da casa. Separato da Moussa, Seydou, insieme a un camerunense con il quale ha instaurato un rapporto filiale, è venduto a un riccone che li libera dopo che hanno costruito a regola d’arte una fontana per il giardino della sua villa. Giunto a Tripoli, il ragazzo inizia una lunga ricerca tra i compatrioti, riuscendo finalmente a ricongiungersi con Moussa. Al cugino hanno sparato a una gamba mentre fuggiva dal lager, la piaga si sta infettando e gli ospedali libici non accettano le persone di colore. Perché si possa curare in Italia, Seydou accetta allora, non senza molte perplessità, di guidare una carretta del mare stracarica, previa una sommaria istruzione da parte di un cinico trafficante di esseri umani.
Io Capitano é un film originale rispetto a quanti sono stati finora realizzati sull’argomento. Innanzitutto perché Seydou e Moussa non appartengono alle due categorie di migranti prese solitamente in considerazione, quelli politici e quelli economici. Il primo, orfano di padre, ha una madre che, oltre a gestire una piccola attività commerciale garantendo alla famiglia una vita dignitosa, sa anche esibirsi nelle danze tradizionali senegalesi. Entrambi frequentano una scuola di lingua francese, idioma che qualche volta alternano con il locale wolof nelle conversazioni private (e quasi obbligatoriamente il distributore ha optato per la versione con sottotitoli). La molla che li spinge a emigrare (in Francia, preferibilmente) è da un lato l’ambizione a cercare il successo come musicisti («Immagina un bianco che chiede l’autografo a un nero!» si dicono tra loro), dall’altro il gusto per l’avventura e l’ignoto. Conseguentemente, il loro viaggio è raccontato con un’ottica che trascorre dal romanzo di formazione alla fiaba (Garrone è pur sempre il regista del Racconto dei racconti, 2015, e Pinocchio, 2019). Dunque il suo realismo è screziato da sequenze dalle tonalità fantastiche (la donna morente che si libra sulle dune) e oniriche (quel messaggero alato che porta alla madre lontana le rassicurazioni di un Seydou prostrato in seguito alle torture subite dagli aguzzini libici) o di apparizioni concrete ma vissute in quanto hanno di meraviglioso (la sontuosa villa nel deserto, le installazioni petrolifere marine illuminate e come tali scambiate per avvisaglie della costa siciliana).
Ma quello del regista romano, da L’imbalsamatore (2002) a Dogman (2018) passando per Primo amore (2004) e Gomorra (2008), nella pratica di un sempre alto livello di stilizzazione, è anche un cinema della crudeltà. Io Capitano non risparmia dunque nessuna delle atrocità con le quali è costretto a misurarsi chi intraprende il cosiddetto viaggio della speranza. Basterebbe, in proposito, l’agghiacciante sequenza del pick-up che sobbalza in continuazione sulle gibbosità di piste che seguono il fondo delle uadi, con gli sventurati sul cassone che rischiano di cadere a ogni salto. Quando uno di loro stramazza al suolo mentre il veicolo si allontana, alle grida disperate di chi glielo segnala, il guidatore risponde che lui l’aveva detto di tenersi ben stretti e rifiuta di fermarsi, abbandonando lo sventurato a morte sicura, tra gli altri cadaveri semisepolti dalla sabbia.
Come ha dichiarato Garrone, Io Capitano offre inoltre «una sorta di controcampo rispetto alle immagini che siamo abituati a vedere: le barche che arrivano nel Mediterraneo, a volte i migranti vengono salvati a volte no, il rituale conto dei morti. Con gli anni ci siamo abituati a immaginarli come numeri, non come persone. Questo film mette la macchina da presa in un punto che dall’Africa guarda all’Europa. E prova a raccontare il loro viaggio, l’avventura. Perché in fondo sono loro gli unici portatori di una vera epica contemporanea, la loro è una sorta di odissea, è importante raccontare la storia dal loro punto di vista e far vivere quel viaggio in prima persona allo spettatore, con momenti di euforia e disperazione».
Il film ha vinto il Leone d’Argento per la regia a Venezia e il protagonista, Seydou Sarr, il Premio Mastroianni per il miglior attore esordiente. Garrone, in una cerimonia la cui commozione vera è per una volta sfuggita all’ingessatura delle dichiarazioni di circostanza, ha chiamato sul palco, oltre a lui e all’altro giovanissimo interprete, Moustapha Fall, anche Kovassi Pli Adana Mamadou, alla vicenda del quale si é ispirato. L’uomo, ora attivista del Centro Sociale ex Canapificio e del Movimento Migranti e Rifugiati di Caserta, ha chiesto che Io Capitano venga dedicato a quanti, a differenza sua, non ce l’hanno fatta.