In “Nottuari” si materializzano gli incubi
BOLOGNA – Capiamo fin dalle prime battute di “Nottuari” di essere imbevuti, come bustina del thè nell’acqua bollente, dentro un bianco latte più aranciameccanicamente di sogno che ben presto si trasformerà in una sequenza di incubi orribili, caleidoscopio di esperienze horror agghiaccianti, quasi dentro un set di un tranquillo dramma di sangue e terrore, urla orrende e splatter feroce. Il drammaturgo e regista Fabio Condemi (le belle scene sono di Fabio Cherstich) ha immaginato quattro stanze che a turno scivolano nei loro binari e carrucole verso la platea, illuminandosi di colori acidi e aggressivi, porte dalle quali emerge una nebbia asfissiante e abbacinante, pareti di plexiglass che si aprono e ci mostrano contenuti inquietanti ed efferati, tende che celano e sipari che elargiscono imbarazzi e paure, impasse e atrocità. Potremmo chiamarlo un’essenza di pellicole dell’orrore, un condensato di ematocrito ed endorfine, un concentrato di epifanie di ematologia e turbamenti caustici, di camere e ambienti, di stati dell’anima che si affacciano sul boccascena del baratro. C’è tutto un immaginario fatto di cliché abusati: il pubblico avrebbe dovuto averne terrore come fosse stato nell’omonimo tunnel al Luna Park?
C’è una zucca arancione di Halloween, la bambina che chiede mefistofelicamente “Dolcetto o scherzetto?” e sappiamo già come andrà a finire. Suonano alla porta (forse è il postino che lo fa sempre due volte) mentre dall’altra parte un marito ha sventrato presumibilmente la moglie con gli schizzi di sangue che ci ricordano le immagini dalla villetta di Cogne o uno dei tanti omicidi della serie Dexter. A tratti “Nottuari” (prod. ERT Teatro Naz, LAC, Teatro di Roma, TPE, Metastasio) si fa pop, tentando di cercare riferimento della cultura televisiva, altre vaga per riuscire a catturare un accreditamento alto e intellettuale (c’era financo chi lo paragonava, come intento e intenzioni, senza egual fortuna, a Romeo Castellucci) con queste visioni oniriche e tremende che arrivano veloci e celermente ci abbandonano non lasciandoci il tempo di una riflessione, di un momento di catarsi, di un attimo per capire o digerire. Urla strazianti, squartamenti gelidi, toc toc allarmanti alle porte (tutto il contrario di “Knock on Heaven’s doors”), ruggiti di mostri famelici ululanti dal sottoscala. Sappiamo come finirà. Male, malissimo. In alcune scene sembra di essere dentro qualche programma di criminologia, all’interno delle ricostruzioni degli omicidi di “Quarto grado” o “Amore criminale”.
L’immaginario crudele dello scrittore Thomas Ligotti ci ha ricordato Stephen King, qualcosa di Kubrick, spennellate perverse alla Wes Craven, zucchero a velo di John Carpenter. Qui la notte non si dorme, la notte non si sogna, la notte è soltanto un buco nero che ci fagocita, una caduta senza salvezza negli abissi di incubi realistici spietati. In mezzo a tante scene succulente, vampiresche e sanguinolente l’intervento attoriale narrativo di un critico d’arte a cercare panorami sull’asse bellezza e tremendo (Francesco Pennacchia sempre sicuro, determinato, risoluto) della Medusa. O un decalogo sui perché non procreare per non peggiorare le sorti del Pianeta già claudicante e malandato a causa nostra. Tra allucinazioni di deliri e abbagli, vomito nel water, nebbia (tantissima, moltissima ovunque, fa molto brivido), questi flash hopperiani e freddi cambiano sempre il focus, spostano l’attenzione in un mordi e fuggi senza posa, un vedo e non vedo di avanzamenti e arretramenti, ingressi e uscite, disvelamenti e sbarramenti. Una sorta di “Non aprite quella porta”. “Nightmare” ci aveva già spiegato tutto. Che cosa abbiamo visto? A che cosa abbiamo assistito? Poi ci sono i devoti e gli adepti che si appellano a San Franco Battiato che geniale stigmatizzò: “In quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’orrore”. Noi non ci trinceriamo e non vogliamo alzare “Bandiera bianca”.