Colpi di Scena dritti al cuore del teatro
Resoconto festival “Colpi di Scena” '24
Forlì – Che sia di Prosa per adulti o di Teatro Ragazzi, la Romagna con “Colpi di Scena” rimane la regina del teatro e l’Accademia Perduta un punto di riferimento per le produzioni italiane. Quest’anno è stato il teatro per le nuove generazioni il protagonista della rassegna diretta da Claudio Casadio e Ruggero Sintoni che ha portato alla luce temi, compagnie, tecniche in un clima, meteorologicamente sahariano, propositivo, fervido, pieno di spunti e riflessioni che abbiamo messo nel bagaglio lasciando Forlì, Faenza e tutti i luoghi toccati dalla rassegna itinerante, aiutata da un’organizzazione impeccabile che favorisce gli scambi, gli incontri, le conoscenze tra operatori. Il focus internazionale quest’anno era dedicato alla Catalogna, con due spettacoli provenienti da Barcellona e dintorni. Sui sedici pezzi visti (una vera e propria maratona di colori e bellezza) nei quattro giorni di programmazione (17-21 giugno) abbiamo scelto di parlare di sei che ci hanno maggiormente colpito, nel bene e nel male.
Cominciamo con “Boa”, di Rasoterra Teatro, con l’intento di trovare la felicità. Iniziamo dal titolo: boa come il serpente? Il Boa constrinctor è proprio l’opposto della felicità perché chiude, stritola, soffoca. Oppure abbiamo pensato al boa del Piccolo Principe, quello che ci mangia l’elefante e diventa un cappello, ma anche lì di felicità non ve n’è traccia. Un duo che sembra più a suo agio nel teatro di strada che compresso tra le regole non scritte di un palcoscenico e di una platea frontale. Il tormentone è un vasetto il cui tappo non si svita né con i muscoli di lui né con quelli di lei ma, prevedibilmente sul finale, con le mani di un bambino (una sorta di Lampada di Aladino), forse sta lì la felicità. I vari punti nei quali è divisa la pièce, un po’ confusionaria e deficitaria di una solida drammaturgia che tenga insieme i vari pezzi, è una sorta di decalogo in alcune parti anche poetico (peccato che però siano sette, perché) che contiene Ricorrenza, Sorpresa, Pacco, Possesso, Eterna Ricerca, Consolazione e Punti di Vista. In Ricorrenza cantano stonati per un compleanno tra scotch e petardi, in Sorpresa ecco le evoluzioni in bicicletta, in Pacco i gratta e vinci sono tutti perdenti, in Possesso lei è messa dentro una scatola trasparente, in Eterna Ricerca fanno birdwatching per scovare dove sta la felicità, tra rimandi pinocchieschi e ambientalismo, con bastone da rabdomante, con un cane da tartufo, con la Lampada di Diogene o con il retino per acchiappare i sogni in forma di farfalla e, una volta presa, si accorge, infinitamente deluso, che è di plastica, in Consolazione si invertono e capovolgono i ruoli del patriarcato ed è la donna che porta sulle spalle l’uomo, che lo issa, che lo fa girare con un carillon, in Punti di Vista lui con una sega elettrica e cuffie rosa (perché? Per strizzare l’occhio al femminismo modaiolo?) taglia il tronco (pericolosamente) sopra il quale lei sta cantando togliendole il terreno da sotto i piedi. Ci siamo persi molti passaggi logici, diventando tutto nebuloso con buone intuizioni ma mancanti purtroppo di un collante efficace tra i vari quadri.
La favola dei Fratelli Grimm con i due bambini e la casa di marzapane ha sempre aperto riflessioni sulla disabilità. Qualche anno fa vedemmo il bellissimo e inquietante lavoro di Alessandro Serra sul tema. Stavolta è La Baracca ad occuparsi di “Hansel e Gretel” con un cast di non-attori che soffrono di disturbi psichiatrici. Due le intuizioni più illuminanti: l’uso delle cornici, all’interno delle quali mettersi in posa come in un bel quadretto familiare, e Hansel diviso, scomposto e scorporato in tre attori. All’interno di un contesto dove il rapporto con la matrigna è quantomeno difficile; infatti, è lei che li vuole abbandonare nel bosco, per i due fratelli questa diventa un’avventura di formazione per cementare il loro legame ma anche per prendere consapevolezza che possono cavarsela con le proprie forze proprio perché stanno crescendo e stanno maturando. Tra musiche ci hanno ricordato la colonna sonora di “The hours” di Philip Glass e citazioni pop come “Ho le tasche piene di sassi” ricordando Jovanotti, fino alla sconfitta della strega perché l’unione fa sempre la forza. Perché “le fiabe non insegnano ai bambini che i draghi esistono, loro sanno già che esistono. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi si possono sconfiggere”.
Il TPO di Prato ha ideato molti anni fa questo tappeto sensoriale di proiezioni suggestive. Questo “Tana” (ci sono dentro il progetto anche Sardegna Teatro e Fuorimargine), dolce e delicato, ricalca il già visto in altre loro esperienze del passato. Siamo in un bosco tanto virtuale e immaginario quanto tattile di colori e natura che si muove: le foglie spazzate dal vento come farfalle, i piccoli bruchi della frutta, l’orso in letargo, la chiocciola, nel passaggio delle stagioni tra piogge e neve, l’erba che si gonfia, i fiori che nuovamente nascono, le spighe di grano, i papaveri che popolano i campi, le api e il loro laborioso ronzare. Uno zoom sul sottobosco fragile e in mutamento, un affresco senza alcun approfondimento rispetto all’oggetto che è mostrato in quanto tale senza metafore, riferimenti, rimandi. È mancato qualcosa.
Molto intelligente, creando un ponte tra il Mito e l’ambientalismo contemporaneo, è il “Demetra” (Teatro Stabile Bolzano) a firma Agrupacion Senor Serrano con la narratrice Beatrice Baruffini. Un gioco interattivo che porta i bambini a pensare, ad essere coinvolti, a partecipare ascoltando, a prendere la parola e confrontarsi sui temi. Si svolge tutto sopra un tavolo (sarebbe stata bella e appassionante anche una versione per pochi spettatori tutti attorno a questa scrivania, come ad esempio gli spettacoli di David Espinoza) con microcamere che proiettano le immagini sul grande schermo. La Baruffini muove i personaggi del Lego, spiega, argomenta, chiede, ora prof didattica, adesso dj al mixer: Demetra insegna agli uomini l’agricoltura e la semina ma allo stesso tempo è anche la Dea della Natura selvaggia, anzi cerca l’equilibrio tra le parti dedicate al sostentamento degli uomini e il bosco dove possono tranquillamente vivere gli alberi, le piante e gli animali liberi nella foresta incontaminata. Il Re di Tessaglia però vuole dare un grande banchetto ed ha bisogno di un grande tavolo per invitare tutto il paese a corte. Non vuole utilizzare vecchio legname ma esige querce da tagliare nel bosco protetto dalla Dea, una zona protetta che non doveva, secondo i patti, essere toccata. Ci viene in mente inesorabilmente l’Amazzonia che il governo brasiliano sta distruggendo e depauperando per lucrarci. Viene in mente il finale del “Giardino dei ciliegi” con il rumore delle asce che azzerano gli alberi secolari. Le querce vengono tagliate, il tavolo è costruito e la Dea si infuria e maledice il Re e lo condanna ad una fame insaziabile: il sovrano accecato dall’avidità mangia tutto voracemente ma più mangia più ha fame, il suo egoismo è pantagruelico e finisce le scorte del Regno, prima di mangiarsi la figlia (come il Conte Ugolino dantesco), fino a morsicarsi e suicidarsi di cannibalismo. Che è quello che capiterà all’Uomo, unica specie vivente che si estinguerà autonomamente, per avventate scelte irrazionali, dalle guerre, al nucleare, un’Umanità che non pensa che le risorse siano finite e che un giorno termineranno inesorabilmente. È l’accumulo, il consumismo, il non riuso e riciclo, il collezionismo, il non accontentarsi mai, lo spreco, il bracconaggio, è la mancanza di una visione futura che ci porterà al punto di non ritorno. Ed eccoci all’aggancio con una storia più vicina a noi, la vicenda dell’Isola di Pasqua, Rapa Nui e la costruzione dei Moai, le gigantesche teste piantate a terra che guardano il mare. In una stagione particolarmente secca, con le piogge che tardavano ad arrivare per bagnare soprattutto gli alberi di banano, principale sostentamento e fondamentale nell’alimentazione degli abitanti dell’isola, si decise per ingraziarsi gli Dei di costruire una grande testa in loro onore e dopo poco dalla sua costruzione l’acqua cadde copiosa dal cielo. Cominciarono a tagliare gli alberi di banano per far scivolare la pietra da una parte all’altra dell’isola. Ogni anno costruivano nuove statue di pietra che avevano bisogno di alberi per poter essere trasportate. Adesso sull’isola ci sono 900 teste ma nessun albero e quindi nessuna possibilità di alimentarsi ed è per questo che quel popolo si è estinto o è dovuto migrare per poter sopravvivere. Come è possibile che non se ne siano accorti che stavano andando verso il baratro dal quale non c’era nessuna possibilità di ritorno? È la nostra strada che stiamo percorrendo velocemente. Abbiamo rotto il patto con la Terra. Ci riempiamo la bocca con teorie ambientaliste senza riuscire a metterle in pratica, noi nel nostro piccolo quotidiano e gli Stati attraverso politiche cieche e ottuse. La Storia è lì che ci insegna se solo volessimo imparare la lezione. Perché i Miti sono eterni e immortali, perché sono successi, succedono, succederanno. Un gran bell’insegnamento. Uno spettacolo utile e necessario. Uno dei migliori della rassegna.
Altro spettacolo intenso, vero, è stato “Down” a cura del Collettivo Clochart dove, attraverso la danza e il racconto, una madre, con una casetta in testa (le costrizioni sociali, il giudizio, le paure) si confronta con la figlia affetta dalla Sindrome di Down. Il padre, un apicoltore quasi astronauta quasi spaventapasseri, non ha retto l’impatto e non ha saputo gestire l’evento, anche perché nell’alveare comanda l’Ape regina. La figlia (torna il nome di Gretel) in scena è realmente una ragazza con la sindrome di Down e danza e racconta consapevole, contro ogni pregiudizio, mettendo a nudo le ipocrisie, sottolineando le criticità da affrontare quando nasce in una famiglia un bambino speciale che ha bisogno di più attenzioni e più cure, più dedizione, pazienza, e tempo. All’alfabeto che snocciola la madre, A come amore, C come casa, S come Sole, I come insieme, M come mamma, la ragazza sciorina il suo più duro e amaro, senza fare sconti: A è handicappata, D è disabile, S è stupida, I è invalida, M è mongoloide. È quello che le è stato detto, quello che ha subito sulla propria pelle, come l’hanno fatta sentire. È tutta colpa tua, perché mi hai fatta down?” è il momento più cupo e drammatico della pièce. Le frasi fatte, cattive e banali, sui ragazzi con la Sindrome di Down poi ci scuotono nella nostra borghesitudine: nascono da genitori anziani, sono affettuosi, non so se me la sentirei di metterlo al mondo, sono un dono. La madre spacca tutti i piatti. Il padre arriva per tentare di rimettere a posto i cocci. Le case che chiudevano e comprimevano le loro teste si sfaldano, i pensieri sono liberi, la vita fluisce in tutte le sue diverse forme, nessuno è perfetto ma tutti hanno diritto ad una vita serena.