Da Burri a Yanagi: visioni del Novecento

Il Novecento nei vari decenni che lo compongono è il secolo più esplosivo, dinamico, tempestoso, trasversale sotto l’aspetto artistico e non soltanto. La variabilità appare in linea con l’accelerazione che la realtà subisce grazie alla dilatazione delle conoscenze tecniche e scientifiche e alla globalizzazione che le generali vicende comportano, su cui incide e ne è effetto anche l’economia. In particolare la pop-art non è confrontabile con nessun’altra corrente di analoga durata, tanto l’elenco dei movimenti che la caratterizzano e che investono l’ispirazione dei protagonisti è fitto e frastagliato: dalle avanguardie, neo-post-trans in poi, compresi quelli che sfuggono ad una definizione del loro lavoro, sotto la specie di un gruppo, di una consorteria estetica a cui non sono stati ancora aggregati; e che risulta tutt’altro che “breve”, con buona pace di Eric J. Hobsbawm e, se mai lo è, da un punto di vista artistico risulta quanto meno denso. Perciò risulta impossibile rappresentarlo in maniera sintetica ed è apprezzabile lo sforzo che i curatori fanno quando allestiscono mostre con un titolo che pretenderebbe di riassumere il secolo XX, magari accostando lavori e personaggi cardine.
Rauschenberg e il Novecento,al Museo del Novecento di Milano. Curata da Gianfranco Maraniello e Nicola Ricciardi, con il supporto di Viviana Bertanzetti, fa un ammirevole tentativo tramite la scorciatoia di mettere in relazione con lo statunitense protagonisti già presenti al Museo, che hanno marcato parte del periodo a cui si richiama, sulla base del suo “spirito di condivisione”, sentimento raro tra gli artisti, riscontrabile tuttavia tra i valori del momento. Non sempre c’è un rispecchiamento compiuto tra i lavori dell’americano e quelli esposti nella raccolta milanese, ma il risultato complessivo, fortemente didascalico, è un invito alla riflessione profonda sulle mutazioni dell’espressione, i cui effetti si protraggono ancora a distanza di due decenni dalla fine del periodo, a cominciare dall’introduzione di elementi concreti nuovi nella realizzazione delle opere che “deformano” l’estetica.
Ospite d’onore Alberto Burri, il primo degli artisti incontrati di persona da Rauschenberg. Il pittore tifernate, il primo, sull’onda dei cubisti, a sperimentare linguaggi inediti rendendo protagonisti assoluti materiali non ancora pittorici – quali iuta, catrame, plastica sabbia e cemento – al di fuori delle scritture più o meno sacre, quelle civili comprese, è stato una fonte d’ispirazione per l’artista americano, che dopo un’iniziale riluttanza ammise che gran parte del suo lavoro guardava al maestro umbro. Ma insieme a lui, con analoga dignità, Balla, Schifano, Parmeggiani. Il tutto con la sintesi dell’attenzione al mondo che tumultuosamente cambiava.
Con un ardito collegamento – perché se nella mostra nel palazzo dell’Arengario l’impegno è latente, tutt’al più intrinseco, mentre qui i proclami sono chiari, seppure espressi con delicatezza –, sempre a Milano, presso Pirelli HangarBicocca (ci piace ricordare che contiene in permanenza I Sette Palazzi Celesti, capolavori di Anselm Kiefer, insieme ai dipinti che grandiosamente ornano le pareti), ICARUS, la prima grande antologica in Europa di Yukinori Yanagi. Intende mettere in comunicazione l’insieme estremamente variegato dei suoi lavori esposti, molti dei quali risalenti al secolo passato, che in parte si rifanno come linguaggio al percorso sopra citato, e assolutamente attuali, con il testo dell’articolo 9 della costituzione giapponese, in cui, aspirando a una pace universale, viene fatta “rinuncia per sempre alla guerra e all’uso della forza per risolvere le controversie con altre nazioni”. Una proposizione sonora, intonata su sentimenti di assoluta nobiltà, perché in una temperie come quella che stiamo vivendo sembra fatta della “stessa sostanza dei sogni”. In evidenza, tra gli altri, le bandiere di sabbia colorata sgretolate dal lavoro incessante di migliaia di formiche vive. Chissà se le bandiere degli stati suprematisti resistono all’incalzare delle formiche. L’opera, vincitrice del premio Aperto 93, trentadue anni dopo la sua presentazione al pubblico, si ripropone, ricontestualizzata all’Hangar, sommando ai 193 Stati riconosciuti dalle Nazioni Unite, 7 Stati che non ne sono membri. Non un semplice auspicio, bensì una sorta di denuncia, considerando che tra i sette (involontariamente come i palazzi celesti di Kiefer) ci sono territori bollenti come Taiwan, Tibet e Palestina. Un continuo rimando tra realtà e metafora, che è la cifra prevalente del suo ricco e articolato lavoro, dove l’ideologia del movimento ininterrotto suggerisce per assurdo la stasi. Grazie all’evocazione del titolo Icarus, la sfida tecnologica si reinterpreta: l’energia atomica si fa succedanea del sole che punisce l’hybris sciogliendo la cera, precipitando l’ardito e superbo figlio di Dedalo in un ambiguo destino: la morte e il mito.