Artisti contro le trappole del potere

L’esplosione delle possibilità dell’espressione artistica nel presente, ma già da tempo, ci indirizza verso riflessioni e domande in passato ineffabili. Serve più un’opera che denuncia, smaschera, condanna le aberrazioni e i soprusi verso gli inermi e i derelitti, come le guerre, le persecuzioni, gli sfruttamenti o l’offerta di prodotti artistici a fini di beneficenza per queste categorie di persone, come la recente asta di dipinti e sculture di 40 artisti a Milano, Spazio Lock, il cui ricavato è stato destinato alla popolazione martoriata di Gaza? Gli osservatori più sensibili oggi non si distaccano dalla valutazione della lettura degli eventi, ivi compresi i gesti di generosità, e giudicano gli artisti e le loro opere sulla base della loro attenzione al mondo cattivo e alle inique sofferenze di bambini, donne, uomini, colpevoli di essere nati nel posto sbagliato. E nella reciprocità tra critici e artisti si sviluppa un’arte o un atteggiamento che privilegia l’engagement, la responsabilità, che si esprime con la forza incisiva dell’impegno, per dichiarare la condanna dell’ingiustizia o mettere in guardia verso i pericoli di cui i potenti disseminano l’attualità, per la conservazione del potere a danno dei fragili o della casa comune, l’ambiente. D’altro canto la gente, compresa quella a cui la generosità dà sollievo, apprezza i gesti munifici.
A Gela, presso il Padiglione Off del Civico 111, a cura di Danilo Samuele Mendola risponde in maniera egregia, benché non decisiva, alla questione. La mostra Deactivate / Disinnescare (2025) di Alfonso Siracusa Orlando, artista famoso per affrontare tematiche legate al complottismo, alla manipolazione mediatica e alle ambiguità sulla percezione della realtà, includendo riferimenti simbolici, informazioni esoteriche e “disinnescando” i meccanismi corrosivi delle élite e dei loro agenti della comunicazione. Lo fa con efficacia? È lecito dubitarne, perché chi rimane invischiato nelle dinamiche subdole della massmedialità, spesso non ha i mezzi intellettuali per utilizzare l’offerta, ma l’artista responsabile il suo dovere lo compie con gli strumenti che ha a disposizione, smontando i meccanismi dell’informazione ingannevole e subdola con allegorie e intervenendo su quelle che lui chiama icone mediatiche come le rappresentazioni di Trump, le Torri Gemelle, Elon Musk, Obama, la Regina Elisabetta, su cui si è impostato un consenso che le ha deformate ai soli fini del potere e del controllo, rendendole esplosive, travolgenti, annichilenti la volontà e la lucidità di giudizio.
Restano numerosi gli spazi d’intervento per sanare una situazione planetaria compromessa sia sul piano sociale, sia su quello ecologico e, ovviamente, anche se iniziative al Guggenheim di New York come A Poem for Deep Thinkers o Green art, non riescono a dare una risposta sufficiente, il loro contributo occupa una sfera d’interesse notevole, grazie alla densità del messaggio e al fascino delle scelte estetiche.
Di Renata Boero, viene proposta Teleri – Musei Civici di Palazzo Buonaccorsi, Macerata Dal 4 giugno al 9 novembre 2025, una selezione di opere monumentali realizzate tra la metà degli anni Settanta e i primi Duemila. Sperimentazione “al femminile” che non nasce oggi, data la costanza nel tempo dell’artista, con materiali naturali e pigmenti vegetali che fonde poetica e richiamo ad una sensibilità ecologica che si coniuga con i risultati di assoluto valore.
Con la retrospettiva di Rashid Johnson al Guggenheim A Poem for Deep Thinkers, tra i lavori che ne ricordano l’impegno sociale, non solo sostanze naturali alla base del linguaggio estetico, bensì la natura stessa: le piante. Installazioni innovative che non solo sovvertono la staticità dell’oggetto d’arte, tradizionalmente fisso o mosso da meccanismi o gesti volontari, come nelle performance, presenti anche questi nella mostra a lui dedicata, dove campeggia la verdanza “crescita, memoria e sopravvivenza”, trasformando la pianta, che compare sospesa al soffitto, in oggetto d’arte in divenire. Non più come metafora, bensì un’autorappresentazione, in cui l’artista è semplicemente un traghettatore del senso e a lui è riservata la messa in scena, suggerendo inoltre che sia la pianta, sia la società e i suoi componenti hanno bisogno di cure per sopravvivere.
Le piante, come le persone quindi come soggetti politici. Sempre più artisti dal pensiero profondo e dalla sensibilità sociale le propongono per sovvertire gli andamenti rovinosi della società dei consumi, delle politiche segregazioniste e razziste, degli atteggiamenti omofobi. Le pansè piantate da Paul Harfleet nei luoghi testimoni di omofobia o la piantagione di Otobong Nkanga come rappresentazione degli schemi e dei limiti da non oltrepassare, non travalicare, speculari a quelli imposti dalle strutture politiche delle differenze; oppure la scelta di esporre le piante considerate infestanti, a dichiarare lo sradicamento sociale, il rifiuto.
Sempre più, ma non abbastanza purtroppo – ancora, come abbiamo avuto occasione di dire, la guerra resta quasi negletta – l’arte e gli artisti si rivolgono alle problematiche vere dell’esistenza e, suscitando anche soltanto un piccolo barlume d’interesse che sovrasta la semplice contemplazione che tradizionalmente è connaturata con l’arte, favoriscono un avvio di presa di coscienza.