Rapporto Draghi: chi decide e chi paga

L’attesissimo Rapporto Draghi sulla competitività è stato presentato il 9 settembre scorso a Bruxelles. Il titolo evoca un tempo andato. “Competitività” è la parola chiave della fase de “La fine della Storia e l’ultimo uomo” di Francis Fukuyama. Il lessico dell’apogeo del mondo unipolare a stelle e strisce, della globalizzazione e della rotta mercantilista dell’Unione europea trainata dalla Germania. Siamo in un’altra stagione. Si afferma una pluralità di protagonisti economici e geopolitici. Il global south è, certo, contraddittorio, ma esiste e pesa sulla scena delle relazioni commerciali e militari. Il mercato globale si frammenta in mercati regionali tra “amici”. È la stagione della domanda interna. Sarebbe stato decisamente meno stridente con il segno dei tempi incentrare il Rapporto sulla “Produttività”. Competitività è “pericolosa ossessione”, secondo la perfetta definizione coniata da Paul Krugman nel 1994, richiamata dallo stesso Mario Draghi a La Hulpe, alla conferenza sul pilastro sociale dell’Unione, qualche mese fa. Allora, l’ex Presidente della Bce affermò: per la competitività, “Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale pro-ciclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale”.

A partire da tale mea culpa, ci si aspettava che l’autore del Rapporto ridenominasse il suo prodotto e, soprattutto, lo iniziasse con proposte adeguate a rimuovere le principali determinanti che, nell’Ue, dalla metà degli anni ‘80, hanno dimostrato la tesi di Krugman. Invece, come già aveva fatto Enrico Letta nella sua ideologica celebrazione del mercato interno, da Mario Draghi nessuna proposta correttiva finalizzata a rendere equa la concorrenza tra Stati. Nessun accenno a correggere i principi della Direttiva Bolkestein per promuovere almeno la convergenza dei livelli di tassazione e affermare compiutamente il principio dello Stato di destinazione. Nessun riferimento all’aggravamento del dumping fiscale e sociale alimentato dall’avviato ingresso nell’Ue di altri 9 Stati (dall’Ucraina ai Balcani) caratterizzati da salari a 300-400 euro al mese e tassazione minimale. Insomma, i peccatori intendono continuare a peccare, nonostante il riconoscimento dei peccati commessi.

Oltre a riconoscere l’insostenibilità della rotta mercantilista, per entrare in sintonia con le diffuse e spesso rabbiose domande di protezione sociale e identitaria delle periferie sociali, sarebbe stato intelligente scrivere un programma dal titolo “Per la piena e buona occupazione”. Si sarebbe evocata una meta di luce. Invece, si è insistito su un termine algido, anzi raggelante, segnalatore di precarizzazione delle vite, oltre che del lavoro: un “mezzo” al quale per trent’anni è stato associato un fine sempre contraddetto dalla realtà: il miglioramento delle condizioni materiali delle persone.

DUE CONTENUTI PORTANTI

Nel merito, il Rapporto ha due contenuti di portata significativa. Non sono le note e martellate “riforme strutturali”, né la lista della spesa per investimenti, completata dalle risorse per la produzione di armamenti, in coerenza con la scelta della maggioranza Ursula di fare dell’Ue un “dipartimento civile della Nato globale”, come efficacemente sintetizza Wolfgang Streeck nel suo ultimo libro (Globalismo e democrazia, Feltrinelli, 2024). Le novità rilevanti sono, invece, chi decide che fare e chi paga il conto.

Sul chi decide, nel Rapporto evaporano le favole su “Stati Uniti d’Europa” e Europa Stato federale. Sono state utili a presentare come transitorio il dominio del mercato e a cancellare, non a “limitare” e condividere, la sovranità democratica sui pochi strumenti di politica economica ancora utilizzabili. Ma, ora, sostiene il nostro autore, non possiamo perdere altro tempo con le “Convenzioni sul futuro dell’Europa” o le “Conferenze per la riforma dei Trattati”. L’ortodossia viene accantonata. Si ripete la scena vista nel 2012 quando l’euro e la casa comune era a rischio. Scatta il realismo nella tecnocrazia lungimirante. I beni pubblici europei sono urgenti. Li possiamo, li dobbiamo, “produrre” attraverso l’unica strada percorribile sul terreno politico democratico: la cooperazione tra Stati nazionali autonomi. L’Ue inter-governativa. Quindi, regia piena confermata al Consiglio dei Capi di Stato e di Governo. Cooperazioni rafforzate dentro o fuori i Trattati. Rilancio dei Parlamenti nazionali criticati da Draghi, giustamente, per passività verso la Commissione e richiamati al loro dovere in applicazione del principio di sussidiarietà. I “federalisti” osannanti, così diffusi nel “campo progressista”, hanno letto il Capitolo 6 del Rapporto?

Sul chi paga il conto, il realismo lascia il posto a pericolose rimozioni. Le somme previste sono enormi: 750-800 miliardi di euro all’anno, circa 5 punti percentuali di Pil Ue, 5 volte il bilancio annuale della Commissione. Sono necessarie per le infrastrutture, la ricerca scientifica e tecnologica, le armi, la ricostruzione dell’Ucraina. L’elenco, per quanto lungo e dettagliato, è parziale. Manca il tassello della cooperazione internazionale allo sviluppo di chi è costretto a fuggire per cercare speranza. È un tassello decisivo. Gli editti, anche quando giustificati, sono cari ma non fermano la marea.

Chi paga? Mario Draghi è esplicito: si spende a debito. Nessun accenno a un minimo di tassazione dei mega redditi e delle ipertrofiche ricchezze. Nessun riferimento ad evitare di aggravare il dumping fiscale “interno” in arrivo con l’ulteriore allargamento. Si fa debito. Debito pubblico e debito privato. “Debito buono”, si intende. La quota pubblica è raccomandata non soltanto per finanziare gli investimenti direttamente affidati allo Stato, ma anche per riconoscere tassazione agevolata e innalzare i rendimenti degli investimenti dei privati, per offrirgli robuste garanzie, per sostenere i fondi pensione. Insomma, gli Stati nazionali devono indebitarsi a dosi massicce nel prossimo decennio. Attenzione al gioco di specchi degli Eurobonds “come per i PNRR”. Certo, sarebbero utili. Aiuterebbero anche l’avanzamento verso un mercato unico europeo dei capitali. Ma sono sempre debito nazionale. La quota di risorse a fondo perduto, contenuta nella dotazione dei PNRR in corso, è irripetibile e comunque ad oggi senza copertura di “risorse proprie” della Commissione per far fronte ai relativi oneri. Lo strumento ordinario sono prestiti agli Stati. Gli Stati devono ripagarli, sebbene, per alcuni come l’Italia, a tassi di interesse inferiori a quelli di mercato.

UN’ACCOGLIENZA FREDDA… A PARTE I SOLITI PARTITI DELL’AGENDA

Come era facilmente prevedibile, dato l’europeismo reale rimosso dal nostro discorso pubblico, ma presente in ogni nazione dell’Unione, le proposte di Draghi non hanno trovato grande accoglienza politica, nonostante la virata realista dell’autore sulla governance e le ricordate inammissibili rimozioni. Soltanto i nostri Democratici, per consolidata subalternità culturale e politica, hanno esaltato, a scatola chiusa, il lavoro. Qualche intellettuale d’area li ha finanche esortati a fare del Rapporto Draghi l’ennesima loro agenda: un’altra “agenda Draghi”, dopo l’“agenda Monti”.

La chiusura, innanzitutto tedesca, non risolve i problemi oggettivi di fronte a noi: sono urgenti politiche pubbliche a scala europea, o almeno a scala nazionale ma coordinate, sul versante geopolitico, militare, climatico, tecnologico, economico. De-globalizzazione e tendenza all’isolazionismo e al protezionismo degli Stati Uniti sono in corso. I ritardi nella ricerca scientifica e nell’innovazione tecnologica si “sentono”. I costi dell’energia mordono. Maggiori investimenti pubblici a debito o investimenti privati sostenuti attraverso la spesa pubblica, in un modo o nell’altro, si faranno. E, qui, viene il nodo politico rimosso dal Rapporto: senza un radicale mutamento della politica monetaria, la maggior spesa per interessi, dovuta sul maggior debito pubblico e privato, risucchierebbe, prima o poi, più prima che poi, risorse da Sanità, scuola, politiche sociali. In sintesi, da un lato, ancora mutilazioni del welfare; dall’altro, espansione del warfare e rigonfiamento della finanza. Insomma, una larga redistribuzione di reddito dal lavoro alla rendita. Il Presidente Draghi, qui, rimuove. Sottintende soltanto ulteriori tagli sulle pensioni nell’invocazione di previdenza privata a fiscalità agevolata al fine di innalzare il risparmio delle famiglie e ridurre la spesa corrente. Ipotizza incrementi di produttività a beneficio della sostenibilità finanziaria del carico posto sulle spalle dei contribuenti. Ma non sarebbero sufficienti per ammissione dell’estensore stesso del documento. Stupisce il giubilo per il Rapporto Draghi da parte di chi si ripropone come rappresentante di lavoratrici e lavoratori. Ha letto il Capitolo 5?

QUEL CHE SUL RAPPORTO NON C’È

Come affrontare la fase straordinaria? Attraverso la Bce. Nel Rapporto avremmo dovuto leggere un’affermazione potente e definitiva come quella pronunciata dall’allora Presidente dell’istituto di Francoforte per il salvataggio della moneta e per la tenuta dell’impalcatura dell’Ue: un “whatever it takes” per gli investimenti. Il maggior debito pubblico, proprio perché buono, vincolato a priorità strategiche condivise, dovrebbe essere comprato dalle banche centrali nazionali guidate dalla banca centrale dell’Eurozona, come durante la pandemia per lasciare a zero i tassi di interesse, evitare oneri insostenibili per i contribuenti e salvare vite e lavoro. Dovrebbe rimanere in pancia all’Eurosistema, come già si sarebbe dovuto fare con il debito Covid e quello accumulato per ridurre l’impatto sui prezzi della guerra a Kiev. In sostanza, si dovrebbe infrangere il tabù della monetizzazione del debito pubblico. Mario Draghi, quando ricevette il premo Paul Volker a New York a metà febbraio scorso, riconobbe il passaggio di fase storica e segnalò l’esigenza di declinare l’indipendenza delle Banche centrali in termini meno autoreferenziali al fine di sostenere le politiche di bilancio.

Qui, no. Verrebbe al pettine il nodo politico decisivo: lo statuto ordoliberista dell’Ue, inteso come regolazione della moneta, dei mercati e del Tesoro, non può sopravvivere alla fine della “fine della Storia”. È incompatibile con il tornante eccezionale di fronte a noi. La Germania e i suoi confinanti si mettono di traverso. Vero. Ma gli ultimatum apocalittici non servono. Una classe dirigente adeguata deve giocare a carte scoperte.