L'editoriale
Quella primavera di libertà

La sceneggiata del nostro Presidente del Consiglio su Ventotene ha più di un senso. Alzare un polverone per nascondere una difficoltà politica ma anche dare un segnale ai suoi di sostanziale fedeltà alla radice neofascista e nazionalista e di distanza verso il mondo dell’antifascismo in ogni sua versione. Non è poco a ridosso dell’ottantesimo delle Fosse Ardeatine (definite frutto di una “strage nazista” e non nazifascista) e dell’ottantesimo del 25 Aprile. Il solito solone dirà: ma ancora col fascismo e l’antifascismo! Non è un ossessione amico; qui c’è in ballo la Costituzione e il profilo democratico della nostra Repubblica: la centralità del lavoro (art.1), i diritti sociali e l’eliminazione degli ostacoli che impediscono di fatto l’uguaglianza dei cittadini (art.3), il ripudio della guerra “come strumento di offesa e di risoluzione delle controversie internazionali” (art.11), il riconoscimento della proprietà privata certo ma entro garanzie che ne determinino “modi di acquisto, godimento e limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” (art.42 della Costituzione). Proprio come scrivevano a Ventotene: “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”. E così è stato fatto in numerosi casi nella storia democratica della Repubblica nata dalla Resistenza: riforma agraria, nazionalizzazione dell’energia elettrica, espropri per motivi di pubblica utilità ecc. ecc. ecc.
D’altra parte non solo nel Manifesto del 1848, né in quello di Ventotene dobbiamo cercare un limite alla proprietà privata, basta leggere la dottrina sociale della Chiesa dalla Rerum Novarum (1891) alla Fratelli tutti (2020). La centralità del bene comune o più laicamente degli interessi generali rispetto all’assolutizzazione del “particulare” ne è il cuore.
La nuova aurora di Ventotene, sia nella piazza promossa da Serra sia nella boutade meloniana, ha avuto il merito di riaprire un dibattito sull’Europa e ha, forse, indotto qualche parlamentare a leggere quel documento, ignoto alla gran parte degli inquilini di un Parlamento rappresentativo più delle smunte oligarchie di partito che della volontà degli elettori (ahimè, c’è da scommettere che non si modificherà la legge elettorale ridando la scelta ai cittadini nemmeno se si dovesse realizzare la profezia letteraria di Saramago di un popolo che decida in massa di non votare). È evidente che nel Manifesto ci sono feconde intuizioni e inevitabili limiti. E anche un’accentuazione simil-leninista sulla funzione demiurgica di una “classe” di intellettuali illuminati e illuministi. Ma il punto centrale è la critica dei totalitarismi, dei dogmatismi, dei nazionalismi e la prospettiva di un’Europa federale dopo due guerre che ne hanno provocato un esito suicidario.
È questo il progetto che sta nascendo oggi sulla canna del fucile? O non è invece la strada del riarmo Stato per Stato una via che non realizza affatto una difesa comune ma rigerarchizza i rapporti interni all’Europa, soprattutto con il riarmo tedesco? E chi paga il prezzo del warfare se non i lavoratori ed i ceti più bisognosi di servizi, cure e tutele universali? Peraltro in questo gigantesco piano di investimenti militari non c’è il benché minimo accenno a una patrimoniale sulle grandi fortune o sugli enormi arricchimenti accumulatisi sulle grandi disgrazie (come il Covid). Così davvero si corre il rischio di lasciare le armi a una destra che cresce sul collasso delle protezioni sociali.
D’altra parte come immaginare una messa a sistema di risorse e competenze, una razionalizzazione delle ingenti spese per la difesa dei diversi Stati dell’Unione con un’operazione a somma vicino allo zero, senza una politica estera comune e un avanzamento deciso dell’unità politica? Ma questo tema è rimosso. L’unica cosa chiara appare quella di una riconversione economica a scopi bellici con la esasperata drammatizzazione di un nemico alle porte che, se così fosse, non si capirebbe perché dovrebbe sportivamente aspettare con sportiva deontologia la messa a regime del nostro progetto di riarmo.
Attenti a fidarsi troppo del si vis pacem para bellum. La sua lunga storia ha conosciuto solo smentite. L’Europa immaginata sulle rovine di due guerre devastanti provi a costruire una propria soggettività su politiche di pace e (bestemmia!) disarmo, di sicurezza, di cooperazione multilaterale. In questo modo avrebbe potuto contribuire, forse potrebbe contribuire, anche alle migliori sorti dell’Ucraina e del suo popolo.