Per Gianni Vattimo

Questo non è il mio necrologio per Gianni Vattimo, né una memoria completa, ma una prima bozza per ricordarlo tra amici, come merita. Prima che il filosofo famoso (di cui mi chiesero anche in un convegno in Libia, alcuni universitari venuti da Granada), ho conosciuto Gianni nell’Azione Cattolica, entrambi quasi ragazzi, e poi perché eravamo vicini di casa, ci si incontrava sul tram 6. Era nato in via Germanasca 10, una via che mi è cara. Quando lavorava per la televisione fece una ripresa sulla palestra di roccia sotto la Sacra nientemeno che con Walter Bonatti, e invitò con lui anche mio fratello Pier Giorgio, ancora ragazzo, poi forte alpinista anche lui, felice della grande occasione. Nel settembre 1964 venne a Pozzo Strada ad una messa per me importante. Di carattere sereno era Gianni, almeno nella comunicazione e nell’espressione. Anche triste? Una “leggerezza” sana, teorizzata, ma prima vissuta nel rapporto umano. Gentile. Gli era morto il padre che era ancora bambino. Ironico contro le pesantezze, ma non cinico, semmai anche appassionato per la giustizia.  Quando ero alla Fuci a Roma (1957-61) mi scriveva per spingere la Fuci ai cancelli delle fabbriche a lottare con gli operai. Fece anche politica, in vari partiti, ma sempre dalla stessa parte: variazioni a sinistra, non deviazioni. Buono, fino alla personale debolezza, indifeso, chiaro, non rigido. Lo chiamammo a sostituire Balducci (morto improvvisamente, 1992) in un piccolo convegno del foglio: aveva appena perduto il compagno, nel ritorno dagli Usa, ma venne e partecipò, con semplicità. L’ultima volta l’ho incontrato in passeggiata sotto i portici di via Po, accompagnato da una badante, mi pare: ci siamo salutati, fermati per due parole spiritose. Ha sempre mostrato interesse al foglio (mensile torinese): era abbonato e ci teneva a questa area che noi un po’ rappresentiamo (anche se una volta gli dovetti estorcere la quota in ritardo, sotto casa sua in via Po). Cattolico semplice, tutt’altro che bigotto, ma non attivo per riformare la chiesa: accettava la sostanza, aveva le sue idee. Vedeva anche nel vangelo la “debolezza” come la intendeva lui. Famoso filosofo e povero cristo. Intelligente, molto, si può condividere o meno il suo pensiero, ma credo che sia soprattutto mitezza, non nichilismo. Ha scritto anche sulla sua fede. Una sera, dopo una chiarissima conferenza per i liceali sulla filosofia attuale (conservo gli appunti), facemmo due chiacchiere nel suo “maggiolino” Volkswagen: Bontadini gli aveva detto: «Ma come, Vattimo, tu non credi più in Dio?». E lui gli aveva risposto: «Opino». Nel massimo della sua fama, ricordo un teatro Carignano strapieno, le studentesse in visibilio, perché era anche bello. Disse che l’essere è come il formaggio svizzero, pieno di buchi (credo che abbia ripetuto questa immagine). Diciamo la verità: negli ultimi anni, scontata la fama, faceva anche interventi improvvisati, divagando con leggerezza e abilità intorno all’argomento assegnato. Provai pena per lui vedendo qualche intervista recente in cui la stessa espressione verbale era assai poco comprensibile. Ma con un viso sorridente. Non si vergognava di incarnare la debolezza della vecchiaia, che il tempo ci dà da vivere, nella salita al valico verso l’altro modo di essere.