economia e lavoro
Non siamo ancora un Paese per le donne

A proposito della condizione lavorativa delle donne oggi in Italia, il primo dato con cui bisogna fare i conti è che il nostro Paese si colloca agli ultimi posti in Europa per tasso di occupazione femminile: 55% contro la media Ue del 63,9%. Il che, di per sé, la dice lunga sui progressi della nostra società negli ultimi decenni, anche a dispetto degli stessi passi avanti compiuti in ambito legislativo per favorire una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. A questo dato, però, bisogna aggiungerne un altro, non meno indicativo della nostra condizione di arretratezza, almeno in questo ambito: l’occupazione femminile è concentrata essenzialmente nei settori dell’istruzione e della salute, nei servizi, nel lavoro di cura esterno, mentre sono i maschi a farla da padrone nei settori tecnologici e scientifici (per non parlare delle posizioni dirigenziali e manageriali), dove, a parte le mansioni e le competenze, le retribuzioni sono decisamente più alte. Per quanto la società sia cambiata in questi anni, insomma, e nonostante il progresso della normativa in materia, in Italia si registra ancora, più al sud che al nord a dire il vero, una tendenza a relegare le donne in ruoli educativi e di cura, anche fuori dalla famiglia.
L’INIQUA DISTRIBUZIONE DEL LAVORO DI CURA
La cura, quindi. Non si può affrontare il problema del lavoro delle donne senza considerare che sono le donne ad essere largamente coinvolte nelle attività domestiche, in quelle di assistenza ai soggetti non autosufficienti, nella crescita dei bambini. I numeri dicono che in Italia ben l’81% delle donne è impegnato nella cura familiare, contro il 20% degli uomini. Significa che le donne dedicano almeno cinque ore al giorno al lavoro di cura non retribuito in famiglia, perdendo in questo modo una serie di opportunità per quanto riguarda il lavoro esterno e la carriera. Eppure, le donne sono più istruite degli uomini. Studiano di più, conseguono titoli accademici più dei maschi. Stando ai dati Istat, sono il 65,7% le donne nella fascia d’età compresa tra 24 e 65 anni ad avere almeno un diploma di scuola secondaria, contro il 60,3% degli uomini. Titoli ai quali molto spesso non seguono però percorsi lavorativi e professionali adeguati, continuativi, proprio a causa dell’assorbimento del lavoro di cura, delle interruzioni per gravidanze (la stima è che l’arrivo di un figlio costa il posto di lavoro ad una donna su due). E questo spiega anche perché tra le donne l’incidenza del lavoro part-time, frammentato, precario, è più marcata. Anche qui i numeri parlano da soli: tra le donne, ben il 33% delle occupate è impegnato in lavori part-time e saltuari, occasionali, contro l’8% dei maschi. Si stima, addirittura che dopo una gravidanza, e per molti anni a seguire, una donna arrivi a prendere retribuzioni inferiori anche del 40-50% rispetto ai colleghi maschi, negli stessi settori, per le stesse mansioni.
LAVORO PRECARIO, RETRIBUZIONI E PENSIONI PIÙ BASSE
Tutto questo si traduce non solo in una disparità salariale e di reddito, ma anche, in prospettiva, in una disparità pensionistica. Salari più bassi, lavoro precario, pensioni più leggere. Lo chiamano “gender gap previdenziale”. Nel 2024, per stare ad alcuni dati forniti dallo stesso Istituto nazionale della previdenza, l’importo medio mensile delle prestazioni pensionistiche è stato, in totale, di 1.246 euro, in leggero aumento rispetto ai 1.231 del 2022. Nello stesso rapporto, però, viene fuori che gli assegni medi liquidati agli uomini ammontano a 1.475 euro, mentre quelli destinati alle donne a 1.048 euro. Una differenza di ben 427 euro, che in percentuale è pari al 29%. Anche per questo si parla sempre più insistentemente di “povertà di genere”, soprattutto per le donne con più di 65 anni, in età da pensione. Le donne sono più a rischio povertà degli uomini, al sud più che al nord, insomma. E questo ha implicazioni che vanno molto al di là dell’accesso ai consumi o ai servizi di base. La condizione di reddito determina il grado di libertà e di indipendenza delle donne. E di ricattabilità. Tra i ceti popolari, nelle aree marginali, nelle periferie metropolitane, questo è un problema di prima grandezza. Spesso la violenza di genere è soprattutto violenza economica. Mentre proprio l’indipendenza economica delle donne costituisce la principale difesa contro i fenomeni, in crescita, di violenza fisica.
UN NUOVO PARADIGMA, PER UNA SOCIETÀ PIÙ INCLUSIVA
Tutti questi problemi rimandano alle insufficienze del nostro sistema di welfare, ma anche all’organizzazione stessa della produzione materiale della vita, dei servizi, nel nostro Paese. Per quanti interventi, spesso frammentati, siano stati adottati dai Governi in questi anni su questo versante (bonus, congedi, prepensionamenti), la questione rimane sostanzialmente insoluta. Certo, pesano anche retaggi culturali, convinzioni radicate nella coscienza collettiva, pregiudizi duri a scomparire, patriarcato, ma chi, se non la politica, è chiamata ad affrontare alla radice questi problemi, intervenendo sulle strutture stesse dell’economia e della società? Ecco, il problema è il modello di società e di economia. Serve un cambiamento di paradigma. Il che significa interventi volti a valorizzare, anche culturalmente, il lavoro delle donne ed infrastrutture sociali per redistribuire il lavoro di cura, assumendo il principio che il funzionamento della società non può fare a meno né del “lavoro” né della “cura”. Ma anche riduzione dell’orario di lavoro (le nuove tecnologie devono servire a questo, non a perfezionare e rendere più subdole le forme di sfruttamento e di controllo del lavoro), ovvero una politica che favorisca la riconciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze della vita privata, che per le donne è davvero una questione cruciale. Dal lato del welfare, invece, serve una nuova architettura dei sistemi di protezione sociale, che copra i cittadini, e le donne in primo luogo, per tutto l’arco della vita dal rischio di esclusione sociale e di povertà. Su tutto, in ogni caso, l’importanza maggiore ce l’ha la libertà di scelta, che sia lavoro, cura, o accesso all’istruzione.