Nessuno potrà dire “Non sapevo”

conversazione con Anna Foa

ANNA FOA
Anna Foa (Torino, 1944) è una delle più autorevoli storiche italiane contemporanee, autrice di numerosi saggi sulla storia degli ebrei in Italia e in Europa. È figlia di Vittorio Foa, figura di primo piano nella storia politica e culturale italiana del Novecento, e di Lisa Giua, ex partigiana e intellettuale. Ha insegnato Storia moderna nell’Università Sapienza di Roma. È da sempre impegnata sul fronte della memoria, della didattica e della sensibilizzazione delle giovani generazioni alla conoscenza storica dei fatti riguardanti la Shoah e la deportazione nei campi di concentramento e di sterminio. Nel 2019 è stata insignita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella del grado onorifico di commendatore, assegnato ai cittadini che si sono distinti per il loro contributo nelle professioni, nella cultura e nella società.

Per affrontare la questione israelo-palestinese con qualche speranza di obiettività, c’è bisogno di onestà intellettuale e di equilibrio, evitando le trappole di una visione dogmatica. Da Anna Foa, storica dell’ebraismo e voce autorevole del dibattito pubblico italiano, giungono in questi mesi numerosi contributi veicolati da giornali e media. Ma è dal suo saggio Il suicidio di Israele (Laterza, 2024), la sua riflessione forse più lucida e appassionata, che vogliamo partire.

Oltre che l’esistenza del popolo palestinese, secondo l’autrice, a essere in pericolo è la sopravvivenza stessa dello Stato di Israele, la cui atroce condotta di guerra in Palestina e in Cisgiordania rappresenta solo l’ultimo tassello di una crisi identitaria e morale che attraversa oggi questo giovane Stato, i cui dirigenti hanno da tempo accantonato, sostiene Foa, gli ideali fondanti del sionismo socialista, laico, pluralista che ne avevano accompagnato la nascita. Secondo l’autrice, lo Stato ebraico si sta dunque avviando verso una forma di autodistruzione, per via delle sue scelte politiche, delle derive autoritarie del governo Netanyahu e del crescente peso dei gruppi religiosi ultraortodossi e dei coloni estremisti. Ma è ancora possibile salvare l’idea di Israele come Stato democratico e civile, e al contempo salvaguardare una volta per tutte il diritto dei palestinesi alla vita e alla dignità?

Professoressa Foa, di fronte alle ripetute violazioni del diritto internazionale commesse dall’esercito israeliano, crescono l’isolamento del Paese e l’ostilità generale verso la sua politica. Facile fare una funesta previsione: i bombardamenti indiscriminati su case, ospedali e scuole e il massacro di migliaia di donne e bambini innocenti provocheranno odio per generazioni nei figli e nei nipoti di chi li ha subiti. L’assassinio a Washington di due giovani diplomatici israeliani potrebbe essere solo l’inizio…

Spero proprio di no, che non si arrivi ad assassinii mirati, compiuti da lupi solitari che rappresentano forse l’elemento di più alta pericolosità. Il tema dell’odio, purtroppo, è imprescindibile, e vale per entrambe le parti: chi abbia avuto un familiare ammazzato dai criminali del 7 ottobre o dai bombardamenti di Gaza non potrà mai dimenticarlo e trasmetterà a lungo la sua sete di vendetta a chi gli è vicino. Ma anche se la situazione sembra inestricabile, vorrei ricordare che nel mondo – pensiamo soltanto al Sudafrica dell’apartheid o alla Spagna di Franco – sono già accadute situazioni in cui l’odio irredimibile e il sangue versato per decenni sono stati poi cancellati e superati da una nuova fase civile e culturale. Non dispero che questo possa accadere un giorno anche fra israeliani e palestinesi.

Quanto c’è di antisemita nella critica legittima all’attuale politica di Israele?

Questa sovrapposizione, questa ambiguità interpretativa è perlopiù frutto del pensiero oltranzista della destra israeliana, che ha molti seguaci in Europa e nel mondo. Primo fra tutti Trump, che vede antisemitismo dietro ogni angolo e ora sta usando questa accusa pretestuosa per provare a sbarazzarsi degli studenti stranieri nelle università americane e soprattutto per comprimere quella libertà di parola e di espressione che sono sempre state patrimonio dell’ordinamento e del modo di vivere americano. Io penso che a essere labile non sia il confine di senso fra critica a Israele e antisemitismo, ma lo sia piuttosto il modo di interpretare questo confine. Faccio un solo esempio: se dico che Israele non ha diritto di esistere, certamente sono un antisemita, ma se invece condanno la condotta di Israele in Palestina e in Gisgiordania e ritengo che quanto sta avvenendo a Gaza sia un crimine contro l’umanità (e posso capire anche chi lo definisce un genocidio), sto esercitando il mio diritto di critica politica e non sono certo antisemita.

Nel suo libro lei mette in evidenza la mutazione recente della società israeliana, con la marginalizzazione delle voci critiche e della sinistra, e la crescente radicalizzazione su posizioni ultraortodosse. Ma qual è al momento attuale la reale situazione del dissenso in Israele? C’è un’evoluzione in corso nell’opinione pubblica e sui media, se è vero che dalle proteste incentrate esclusivamente sulla sorte degli ostaggi si sta ora passando a una visione critica più ampia e umanistica dei costi umani della guerra?

Il salto di “qualità” nell’entità e nella ferocia dei crimini di guerra commessi dall’Idf in Palestina e dai coloni nella West Bank sta producendo una forte trasformazione nella protesta civile della società israeliana. C’è crescente empatia nei confronti delle vittime palestinesi, viste sempre più come ostaggi e non complici della follia di Hamas. Nell’opinione pubblica israeliana sta diventando sempre più centrale la questione dei rapporti con i palestinesi, e questo rappresenta una grande novità nei contenuti dell’opposizione interna al governo di Netanyahu.

Su Netanyahu pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale, che finora non sta producendo alcun risultato. Ma cosa sappiamo sulla questione tangenti del Qatar, che sembrerebbe coinvolgerlo personalmente?

La verità è che, dal punto di vista della solidità del sostegno parlamentare al suo governo, Netanyahu sembra ancora molto forte, e per ora l’affaire Qatar non sembra metterlo più di tanto in difficoltà. Per ora l’unico effetto tangibile è stato la nomina del generale David Zini al vertice dello Shin Bet, l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello Stato di Israele. Un’investitura che ha suscitato forti critiche da parte di chi pensa che sia una manovra di Netanyahu per depotenziare la struttura. La strategia del primo ministro è chiara: ogni qual volta qualcuno minaccia una crisi, lui concede in cambio una nomina o annuncia una svolta politica radicale. Ad esempio, l’idea dell’occupazione totale di Gaza sembra l’ennesima concessione all’ala più estremista della sua base politica, rappresentata dal ministro della Sicurezza nazionale, l’ultranazionalista Ben Gvir, e dall’altrettanto oltranzista ministro delle Finanze Smotrich. Sarà sulla base delle dichiarazioni e degli atti di ministri come questi che la Corte internazionale di giustizia cercherà di provare la volontà di mettere in atto un vero e proprio genocidio.

Dalle notizie che abbiamo, sembra crescere il numero dei riservisti che si rifiutano di prestare servizio militare nell’Idf. La questione “disobbedienza agli ordini”, invocata anche dalla scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz e a Bergen-Belsen, comincia ad assumere un ruolo nel dibattito all’interno dell’opinione pubblica israeliana, alimentato da prese di posizione come quella di Yair Golan, leader del partito dei democratici, che ha accusato il governo di crimini di guerra.

Si tratta di un elemento che potrà avere un grosso peso. Il fatto che dall’esercito prenda corpo un dissenso può diventare dirompente. Il movimento Refusenik, che finora aveva causato il sanzionamento soltanto di soldati di leva, sta cominciando a coinvolgere anche i riservisti: è notizia di questi giorni che è stato condannato a qualche settimana di prigione un riservista che ha rifiutato di prestare servizio militare. Fino a ora, i riservisti renitenti non venivano condannati.

Quanto incide il problema dei coloni in Cisgiordania?

Moltissimo, perché il governo li appoggia sempre e comunque. Proprio oggi (26 maggio 2025, ndr), mentre si celebra la festa di Yom Yerushaláyim, il Giorno di Gerusalemme, che commemora la riunificazione di Gerusalemme nel 1967, centinaia di giovani coloni sono scesi nella città vecchia per aggredire e insultare i commercianti palestinesi al grido di “Morte agli arabi”. Queste manifestazioni di odio assoluto sono arginabili, a mio avviso, ma non finché alla guida di Israele ci sarà Netanyahu. I coloni fanatici vanno repressi, così come lo sono i terroristi. Va detto però che non tutti i circa 700 mila coloni sono estremisti e razzisti. Molti di loro non si sentono investiti da una missione divina e sono andati a vivere nelle colonie semplicemente perché lì la vita costa meno.

Dopo la sua visita nei Paesi del Golfo Persico, che ha fruttato affari miliardari, Trump sta “mollando” Netanyahu?

È una sensazione che ho avuto anch’io, ma non so se abbia reale fondamento. Trump non è affidabile, può dire una cosa e mezz’ora dopo dirne un’altra esattamente opposta. Tuttavia, l’idea di fare di Gaza una specie di resort balneare non è stata abbandonata, né da lui né da Netanyahu.

Cosa pensa del progetto americano di affidare la ricostruzione e gli aiuti per Gaza a contractors e società private?

Significa eradicare due terzi della popolazione di Gaza, significa ridurre i punti di distribuzione degli aiuti medici e alimentari da quattrocento a quattro. È inaccettabile, perché trasforma un indispensabile meccanismo di supporto umanitario in strumento di politica militare e di ricatto.

Cosa pensa della posizione del governo italiano? Grandi proteste dopo gli spari in prossimità della delegazione diplomatica in visita a Jenin, ma nessuna presa di posizione dirimente a condanna di Israele, salvo dichiarazioni generiche e retoriche. Intanto la Spagna invita gli altri Paesi dell’Unione a riconoscere lo Stato di Palestina.

Anche la Germania non lo ha ancora fatto, ma si capisce per quali motivi di carattere storico, dopo il nazismo. Quanto all’Italia, le cose non possono che essere così, data la pedissequa sudditanza del governo Meloni alle posizioni degli Stati Uniti e agli imprevedibili voltafaccia di Trump. Ha ragione Bersani: l’Italia sta dissipando completamente la sua grande tradizione diplomatica di Paese mediterraneo capace di dialogare con Israele e Palestina, con un ruolo di mediazione unanimemente riconosciuto.

La questione palestinese rappresenta un drammatico punto di non ritorno per la civiltà occidentale? In futuro, nessuno potrà sostenere di non aver mai visto le terribili immagini quotidiane sui social e sui media…

Mi auguro che ci sia ancora tempo per una svolta in extremis, altrimenti, dopo la Shoah, ci troveremo presto di fronte a un evento che lascia una macchia indelebile nella storia di un consesso umano incapace di reagire all’orrore. Con la differenza, appunto, che stavolta nessuno avrà l’alibi di dire: “Non sapevo”.