Nel tempo delle cose imprevedibili

Corso di studi cristiani 2025 alla Pro civitate christiana Assisi

Siamo nel tempo delle cose imprevedibili. E come tante cose impreviste si sono imposte negativamente in questi anni, così imprevedibilmente, se rimaniamo saldi e perseveranti nella passione e nell’azione per umanizzare il mondo, si potranno riaprire cammini di liberazione, capaci di tenere insieme e far pesare le tante buone pratiche di resistenza, di partecipazione, di presa di parola, di mobilitazione, di costruzione di percorsi vitali impastati di solidarietà attiva, di cura delle fragilità sociali ed esistenziali, di condivisione dei beni, di rammendo dei tessuti comunitari, di gratuità, di fraternità operante, di nonviolenza. Per rendere realistica la speranza, ed il realismo è sempre espressione di onestà intellettuale, bisogna ricostruire un punto di vista critico sullo stato di cose esistenti e offrire ai tanti cammini di liberazione, per dirla in termini antichi, uno sbocco politico. Cioè un’ossatura valoriale che tenga insieme libertà dei singoli e bene comune. Rivoluzione? Chiamiamola come vogliamo. Io continuerei a chiamarla Costituzione. Il prossimo anno mi piacerebbe centrare il nostro Corso e le altre attività intorno ad una parola cristiana che oggi stentiamo a pronunciare: uguaglianza. Una parola calunniata e censurata. Una parola che ha molto a che vedere con la speranza e la liberazione. Di libertà si parla tanto ma senza uguaglianza è falsa e può diabolicamente trasformarsi nel suo contrario: in un esercizio di potenza senza vincoli etici e limiti sociali. Senza argine costituzionale, appunto. La libertà dei potenti di fare ciò che vogliono. E non c’è libertà autentica senza liberazione dalla miseria e dal bisogno. Senza rimuovere gli ostacoli che vanificano di fatto il pieno sviluppo della persona umana. Oggi siamo di fronte ad una gigantesca rigerarchizzazione sociale: potenze libere da vincoli etici e giuridici e Paesi marginali e sottomessi, in mezzo comparse dentro uno spettacolo tragicomico; zone urbane per i ricchi e periferie per i poveri, una formazione per le grandi carriere per i figli di chi ha fatto grandi carriere e quella per gli altri. E si potrebbe continuare a lungo. Anche la fraternità senza l’obiettivo dell’uguaglianza può divenire elemosina pelosa, sgocciolamento di modiche quantità di benessere dal tavolo dei ricchi come è stato, peraltro falsamente, teorizzato. Forse l’accento giustamente posto sulle differenze ha messo in ombra che c’è da perseguire più in fondo un’uguaglianza negli umani: per dignità, diritti, doveri, responsabilità. Questo “veleno dell’uguaglianza”, sosteneva Friedrich Nietzsche, è stato diffuso dal cristianesimo. E noi che ci confessiamo cristiani e proviamo ad esserlo dobbiamo fare di questa accusa il nostro manifesto. Che è il manifesto della fede nella quale non c’è più ebreo e greco, maschio e femmina, schiavo e libero ma è anche un grande manifesto civile, perché queste parole se non ci risparmiano la fatica del lento cammino della storia, pongano però decisamente l’ascia alla radice dell’albero dell’ingiustizia. Don Giovanni Rossi scriveva nel suo Breviario tanti anni fa questa frase: “La carità cristiana non è filantropia, ma culto al Signore visibile nell’uomo”. C’è un bellissimo passo della Lettera ai cristiani di Roma in cui Paolo, parlando del gemito della creazione lo fa dipendere dall’attesa della manifestazione dei figli di Dio. Consentitemi di interpretare questo passo come il difficile ma bellissimo compito dei cristiani e di tutte le donne e gli uomini di buona volontà: far fiorire, come amava ripetere anche da queste colonne il nostro Carlo Molari, i germogli di una umanità capace di attendere il Regno ma, nella piena fedeltà alla terra e al suo equilibrio vitale, capace di attendere alle proprie responsabilità nella costruzione di una vita buona per le generazioni presenti e attenta a quella delle generazioni future. Questo è il senso di quella ecologia integrale di cui ha profeticamente e politicamente parlato papa Francesco. La grazia dobbiamo sempre sperarla e attenderla, non cercandola fuori dal secolo, sapendo certo che il penultimo come diceva un martire del nazismo, Dietrich Bonhoeffer, è veramente il penultimo ma che è l’unico luogo del nostro impegno e della nostra decisione. La speranza cristiana vuole essere anche l’annuncio urgente e liberante che l’ingiustizia, l’oppressione, la sventura non avranno l’ultima parola. La fede nella risurrezione è soprattutto continuazione della lotta per la giustizia con altri mezzi. In questo senso la speranza escatologica non è oppio dei popoli ma una forza capace di indicare un orizzonte che non finisce qui ma che da qui comincia. Lo scorso anno sono morti due grandi testimoni e protagonisti del realismo della speranza e del cammino della liberazione che un po’ ci hanno suggerito il tema del Corso: Jurgen Moltmann e Gustavo Gutierrez, un protestante e un cattolico uniti da una grande passione per Cristo mai separata dalla passione per le donne e gli uomini del loro tempo. Soprattutto per i poveri, senza amore preferenziale per i quali è falso definirsi cristiani. Speranza e liberazione stanno insieme. Sperare è sempre sperare nella liberazione dallo sfruttamento, dal bisogno, dalla miseria, dal dolore, dalla morte. Se non è questo la speranza cristiana può diventare anche una proiezione alienata fuori della realtà, come può essere alienante rimuovere il desiderio che la vita, la vita buona, non abbia miglior destino che quello della tomba. È l’ultima delle tre grandi domande kantiane: in cosa ci è lecito sperare? Provare, nel tempo delle cose imprevedibili, ad essere credenti credibili. Costruire nuove teorie e nuove teologie nella convinzione che non c’è prassi di liberazione senza idee di liberazione. Tutto questo in un tempo nel quale sembra affermarsi la religione del profitto, del riarmo, della guerra, la quale è sempre anche guerra contro i poveri e contro la natura. Mi pare perfino inutile fare esempi, con la tragedia di Gaza abbiamo aperto il Corso, tanto la realtà attuale è oscenamente davanti ai nostri occhi. Più profitti inauditi, più armi, più concentrazione dei poteri in un unico conglomerato è sempre meno dignità del lavoro, meno protezione sociale, meno democrazia, meno diritto e meno diritti. Ci hanno voluto insegnare il dogma del libero mercato e siamo al protezionismo, ci hanno ammannito la sacra verità dei vincoli di bilancio e siamo allo sfondamento di ogni tetto purché si tratti di spese militari. Ma gli extraprofitti non si toccano e tutto sarà inevitabilmente caricato sul taglio della spesa sociale: bisognerà ancora dare oro alla patria! Ma il tempo delle cose imprevedibili è un tempo aperto. D’altra parte nessuna delle grandi trasformazioni della storia è stata vista arrivare. Come scrive Walter Benjamin “ogni secondo è la porta stretta da cui può entrare il Messia”. Quella porta stretta dobbiamo evitare che si chiuda. Ripartire dalle periferie, farne il centro, mettere la punta del compasso sull’autorità di coloro che soffrono appare ed è difficile. Ma da qui bisogna ripartire. Il realismo della speranza e il cammino della liberazione sono testimoniati dai tanti punti di vista e dalle diverse esperienze di cui si è parlato nel Corso. Con esso la Pro civitate christiana ha voluto continuare ad essere un luogo/soglia in cui, con libertà, si incontrano e dialogano persone ed esperienze che vengono da strade diverse ma che sentono forte il bisogno di alleggerire la realtà da ingiustizie e violenze. Che avvertono il rischio della rassegnazione e l’urgenza di resistervi e di costruire un cammino di impegno civile, culturale, politico ed anche ecclesiale che rimotivi la partecipazione e non riduca la democrazia a una scatola vuota. In questo senso la nostra comunità vuol conservare la sua capacità di radicarsi in un territorio senza chiudersi nel provincialismo e di aprirsi all’universale senza rinunciare alla propria più prossima identità. Vogliamo sentirci parte della Chiesa locale ma anche dentro uno spazio ecumenico più ampio. Questo è il dna della Pro civitate christiana dalle origini. Essere Cittadella senza fortificazioni separanti, essere Rocca senza arroccamenti. Nella nostra preghiera sono impresse le nostre impronte digitali. Verso la fine si legge: “Siano i nostri occhi capaci di vedere le ferite e le speranze del mondo, affinché pregando e praticando la giustizia, camminiamo con le donne e gli uomini del nostro tempo”. Lungo questa ispirazione, anche in questo Corso, abbiamo incontrato tanti compagni di cammino, preoccupati certo ma pronti a spendersi.