Negri, Martini e le zone grigie

Il movimento del ’68 ha avuto alcuni aspetti positivi: ha risvegliato delle coscienze, ha spinto alla partecipazione e mobilitazione molti giovani, ha posto il problema di una situazione politico-istituzionale “bloccata” da tempo immemorabile e funzionante a senso unico. Ma è vero anche che in segmenti importanti del movimento (in pratica quelli che si facevano notare e sentire di più) si è manifestata e via via consolidata la “cultura” della violenza politica, prima teorizzata e poi – in un crescendo costante – praticata a vari livelli. Penso anche che alcuni esponenti del movimento e dei gruppi che ne sono scaturiti (in particolare Lotta Continua e Potere Operaio) hanno finito per confluire nelle Brigate Rosse e soprattutto in Prima Linea.

Di Negri, come Giudice istruttore a Torino, mi sono occupato nell’ambito di un’inchiesta parallela a quella sulle Br, riguardante una patinata rivista (Controinformazione) che le Br usavano per propagandare le loro “verità”. Negri fu soprattutto al centro di una controversa indagine del Pm di Padova Pietro Calogero, che volle individuare in lui e nei suoi accoliti i veri capi delle Br. Il “teorema” sul piano tecnico-giuridico non resse, ma ebbe comunque il merito di fare chiarezza: nel senso che in democrazia non ci possono essere “zone grigie” rispetto alla teorizzazione e alla pratica della violenza politica: o si sta da una parte o dall’altra; non ci sono vie di mezzo.

Le zone grigie e i “compagni che sbagliano”

A questo punto giova ricordare una frase del cardinale Carlo Maria Martini, tratta dal discorso pronunciato a Milano alla vigilia della festa di Sant’Ambrogio, il 6 dicembre 2001: “Chi di noi ha l’età per ricordare i primi tempi della contestazione (fine anni ‘60-inizio anni ‘70) sa che la noncuranza e la leggerezza ostentata anche da chi avrebbe avuto la responsabilità di giudicare e di punire, rispetto ad atti minori di vandalismo e disprezzo del bene pubblico, ha aperto la via a gesti ben più gravi e mortiferi. Chi getta oggi il sasso e si sente impunito, domani potrà buttare la bomba o impugnare la pistola. La ‘tolleranza zero’ è, per ogni parola o gesto di odio, supportata da una regola evangelica”. Martini (in sostanza) afferma che secondo il Vangelo è sbagliata qualsiasi parola come è sbagliato qualsiasi gesto di odio. Bisogna rispondere con l’amore, ma è necessario rispondere: non far finta di niente. Da qui l’importanza di valutare subito quanto accade nel mondo che ci circonda, di non stare alla finestra a vedere come va; ma, se qualcosa non va, dirlo fin da subito, perché altrimenti quello che oggi può sembrare un piccolo male prima o poi potrà condurre a gesti ben più gravi.

Per contro, violenza e terrorismo hanno trovato un formidabile brodo di coltura nel famigerato slogan “compagni che sbagliano” nato nel movimento e fatto poi proprio pure da cittadini comuni (né movimentisti né aspiranti brigatisti); cui seguirà a metà degli anni Settanta lo slogan ancor più demenziale “né con lo Stato né con le Br”, di nuovo con radici nella “cultura” del ’68, specie da parte di chi, pur non avendolo fatto, lo aveva visto favorevolmente illudendosi che potesse innescare una specie di mini rivoluzione nel nostro Paese. Giovani e operai insieme per cambiare il mondo (anche se di operai ce n’erano ben pochi), che alla fine invece di riuscire a cambiare le cose hanno ulteriormente consolidato la situazione bloccata preesistente. E che, nel momento in cui non riescono a cambiare nulla, si sfaldano: con alcune frange che vanno a rimpolpare le fila dei terroristi.

In questo quadro, le parole di Martini assumono un significato anche più forte. Ci sono persone della cultura e delle istituzioni che non hanno capito oppure hanno visto e capito e si sono voltate da un’altra parte se non peggio. Non hanno preso posizione quando andava fatto, lasciando che la situazione degenerasse. Tante figure – che poi magari ritrovi in posti di responsabilità, che si sono fatta una “posizione” (spesso nei media) – praticano forme di negazionismo o riduzionismo, tipo “siamo rimasti nel movimento quando il movimento era una cosa ‘perbene’, ma dopo non c’entravamo più niente e non abbiamo colpe delle eventuali degenerazioni”.

A Torino c’è voluto l’assalto all’“Angelo azzurro” – siamo nel 1977, ben oltre il ’68 ma sempre all’interno dello stesso filone – quando, durante un corteo cui partecipava anche Lotta Continua, si dà fuoco a quel bar, che si pensava fosse un covo di fascisti e di spacciatori, e nell’incendio muore un povero cristo “biscottato”. Parola orribile, ma si ricorderà la terribile foto del ragazzo, sulla sedia, portato fuori dal bar ancora fumante. Ecco, lì cominciano a tramontare alcune ambiguità e contiguità col movimento e con le sue componenti violente. Molti prendono le distanze, capiscono che accade qualcosa che non è soltanto la P38 simulata con le dita.

I cattivi maestri e le “buone carriere”

Quel che è successo alla fine degli anni ’60-inizio anni ’70 nel nostro Paese, all’inizio della contestazione, il cardinal Martini lo definisce senza giri di parole come un atto di «noncuranza» e di «leggerezza ostentata anche da chi avrebbe avuto la responsabilità di giudicare e punire». Tornano alla mente i tanti professori universitari, professionisti, intellettuali, giornalisti che (tra le righe ma non solo) della contestazione con i suoi primi risvolti violenti pensavano “oh, che bella cosa”. Erano “cattivi maestri”, alcuni per mestiere, altri per leggerezza, miopia o inconsapevolezza. Certo è che molte volte si tratta di gente che poi farà carriera, gente di medio-alta borghesia: sicuramente non proletariato. Magari qualche proletario c’era anche, ma poi sparisce. Prevalgono nettamente altre figure di ben diversa estrazione.

Io ricordo che, ancora ai tempi delle Brigate rosse, non potevi muoverti (cioè pensare diversamente) che subito venivi accusato di essere un fascista. C’erano tanti anche fra i magistrati che sostenevano che “questi processi non si devono fare, le Brigate rosse non sono roba da processo”. E uno spettacolo davanti a 5000 giovani al Palazzo dello Sport di Torino cominciò con la dedica al generale Dalla Chiesa e al giudice Caselli, il suo servo sciocco…

La profonda riflessione del cardinal Martini

Ma torniamo alla riflessione del Cardinale Martini, fissandone i punti fondamentali:

  1.  Martini dice che è importante valutare subito quanto accade per evitare che da un piccolo male si possa passare a gesti ben più gravi e a un male maggiore.
  2. Egli definisce quello che è successo tra la fine del ’60 e l’inizio del ’70 come atto di «noncuranza e leggerezza ostentata». Ostentata è la parola chiave. Non soltanto si pensava in un certo modo, ma ci si sentiva obbligati a pubblicamente esprimerlo. Io penso alla cattiva coscienza di una gran parte della borghesia medio-alta che, vedendo molti dei propri figli o conoscenti fare certe cose per strada, o intuendo che si facevano in clandestinità, praticava e ostentava la noncuranza e la leggerezza. Magari col retro pensiero: noi non possiamo andare ma neanche parliamo male di chi va. Ed ecco i “compagni che sbagliano” o “né con lo Stato né con le Br”.  Con tutte le evoluzioni o involuzioni o sviluppi perversi che quest’atteggiamento psicopolitico ha comportato.
  3.  Martini non si lascia impressionare, non ha paura di essere frainteso, strumentalizzato o criticato. In sostanza, sostiene che la violenza praticata con intensità negli anni ’70 e ’80, dopo, cioè, il periodo di incubazione, si spiega anche con l’incapacità di tanti adulti di guidare, educare e correggere i giovani che sempre più stavano teorizzando e iniziando a praticare la violenza come metodo di lotta politica.

Ne discende che chi è stato miope o giustificazionista o indulgente su fatti e contesti che si definivano minori non ha contribuito a “fermare” quei giovani che poi faranno cose molto più gravi. E che non sono “funghi fuori stagione”. Pensiamo ai “cattivi maestri” conclamati. Pensiamo all’Università di Trento. Ma anche ad altri. E non si tratta solo di universitari, intellettuali, giornalisti, persone con varie responsabilità. L’ambito è più esteso. Il messaggio del cardinal Martini è chiaro e preciso: chi ha rinunciato a correggere e a punire il proprio figlio o parente o comunque conoscente o giovane che stava sbagliando ha commesso un errore, ha rinunciato al proprio ruolo educativo, ha reso orfani di aiuti e riferimenti giovani che stavano crescendo nel codice della violenza. Codice: non è ancora la pratica della violenza, ma ne è la premessa. Chi, invece di trovare il coraggio di correggere e punire coloro che avevano bisogno di essere aiutati a cambiare, quando si avevano gli spazi e gli strumenti per farlo, anche pedagogicamente (per esempio, da parte dell’autorità accademica, mettendo un argine al 18 o al 30 politico: in Francia alla contestazione hanno trovato delle risposte; da noi invece è tutto tracimato), ha consentito che si generasse via via altra violenza, ha fatto sì, talora anche al di là delle intenzioni, che in questo modo a molti giovani venisse tolto il futuro, la voglia di futuro. E forse, a livello istituzionale, c’è stato anche chi, invece di intervenire fin da subito con decisione, “volentieri” si è lasciato sorprendere dall’emergere di comportamenti violenti. Ma questo profilo – si sa – è molto controverso, e vi è chi al contrario sostiene che sarebbe stato l’eccesso di repressione a favorire il crescere della violenza antagonista. 

Per concludere il discorso sul cardinal Martini, non si può non ricordare anche che i terroristi in fase di “dissociazione” dalla lotta armata manifesteranno nei suoi confronti un sacrosanto rispetto, tant’è che a lui faranno consegnare le armi che non volevano più usare, proprio perché vedevano in lui una persona giusta.