Natale
Natale: l’invenzione della tradizione
Il Natale, con tutte le sue caratteristiche e contraddizioni, può considerarsi, in termini antropologici, un fatto sociale totale, con una mobilitazione collettiva che non trova riscontro in nessun altro ciclo festivo dell’anno. Intorno a questa festività, caratterizzata da cerimonie di rinnovamento del tempo e della comunità e da rituali di rinascita e di fecondità, si sono a lungo sviluppate interpretazioni teologiche, folkloriche e antropologiche che hanno finito per creare un immaginario natalizio, solitamente ritenuto immutabile e alla base di quel senso di nostalgia per il “Natale di una volta”. In realtà, come evidenziato dall’antropologo Lévi-Strauss, il Natale è essenzialmente una festa moderna, malgrado la molteplicità dei suoi caratteri arcaicizzanti, un rituale che nel corso della storia ha subito molti mutamenti. La forma attuale, o quella più sbrigativamente definita laicizzata, globalizzata o consumistica, non è che il risultato di una serie trasformazioni che hanno investito principalmente le modalità esteriori, in particolare quelle venute ad aggiungersi nel corso dei secoli e spesso annoverate tra i mitici elementi originari. I temi della famiglia, dell’infanzia, della carità e della solidarietà sono in realtà introduzioni recenti che hanno finito per assumere un valore universale e diventare parte integrante e irrinunciabile dell’immaginario natalizio, secondo un processo che investe molti istituti festivi, con la proiezione di celebrazioni e rituali moderni in un fecondo passato mitico, che storici e antropologici hanno definito come “invenzione della tradizione”.
Natale con i tuoi: un’invenzione moderna
Lo scambio dei doni natalizi è un’usanza che affiora nella metà dell’Ottocento ed è andata gradualmente diffondendosi fino ad assumere, a partire dal secondo dopoguerra, le attuali dimensioni di una sorta di potlatch contemporaneo, rituale di scambio e di distruzione di beni, unitamente a una connotazione domestica e familiare della festa. Con il crollo delle strutture sociali ed economiche della civiltà contadina e con la scomparsa della cultura del villaggio, dove le celebrazioni natalizie avevano ancora una dimensione collettiva, come testimoniano i tanti rituali che ritroviamo in forme residuali nelle loro rielaborazioni e rifunzionalizzazioni odierne, il Natale, soprattutto nei paesi anglosassoni, assume sempre più la connotazione di un evento intimo e privato da celebrarsi all’interno delle mura domestiche. Attraverso la ritualizzazione di uno spazio e del tempo, la festa diventa un’occasione per la borghesia urbana di celebrarsi, di esaltare le proprie virtù, arrogandosi una funzione didattica e moralizzatrice nei confronti delle classi operaie e meno abbienti, propagandando un’etica della condivisione, della fratellanza e del rispetto dei vincoli sociali, modellata sulla carol philosophy di Dickens. Concordemente viene proposto anche un modello familiare, riflesso di quel valore vittoriano della rispettabilità, perennemente in bilico tra moralità ed ipocrisia, che è stato messo gradualmente in crisi dalle trasformazioni della famiglia contemporanea, malgrado le immagini pubblicitarie con nonni, genitori e nipoti allegramente raccolti intorno alla tavola o all’albero di Natale.
Mediatore di questo processo di transizione da una forma di celebrazione all’altra, e non solo per il mondo anglosassone, resta indubbiamente Charles Dickens, da molti considerato l’inventore del Natale o, per meglio dire, dello spirito natalizio così come è giunto fin quasi ai nostri giorni. Le sue opere a tema natalizio, in particolare A Christmas Carol (1843), coniugando romanticismo e materialismo ed esaltando i valori borghesi dell’ordine e della disciplina, ottengono un grosso successo, anche perché soddisfano ampiamente le istanze di una borghesia che aveva fatto della carità e del paternalismo il suo punto di forza. La famiglia e il focolare di Bob Cratchit, l’impiegato povero e sfruttato dal cinico e freddo Ebenezer Scrooge nel racconto dickensiano, diventano il modello tanto gradito alla borghesia nascente della sopportazione dell’alienazione e della rinuncia ad ogni rivendicazione e aspirazione sociale. Un filone letterario, quello inaugurato da Dickens, che per decenni continuerà ininterrottamente, salvo rare ed originali eccezioni, ad alimentare le utopie natalizie in cui la realtà gretta, egoista e violenta trova le sue soluzioni nel ravvedimento degli indifferenti e dei malvagi e gli ultimi, i reietti, gli emarginati trovano il loro effimero momento di felicità nella illusoria parvenza di realtà.
Un Natale di seconda mano
Uno dei temi maggiormente ricorrenti nella letteratura sul Natale riguarda il mondo dei poveri e dei senzatetto, di coloro che una casa e una famiglia, nel senso tradizionale, non ce l’hanno più o non ce l’hanno mai avuta. Un mondo in cui si incontrano angeli e demoni, presenze inquietanti e rassicuranti, essere diabolici, spiriti maligni, ma anche mondi devastati dall’orrore della guerra o dalla bestialità umana, popolati da un’umanità dolente, come i derelitti di William Burroughs ne Il Natale del tossicomane, in cui emergono sogni e bisogni, talvolta banali, ma non per questo meno cogenti e pressanti. Nel lunghissimo elenco di autori, famosi e meno noti, accomunati spesso dalla loro carica disturbante e in forte contrasto con l’atmosfera fintamente festaiola che trabocca dagli schermi televisivi e da altri social media, nell’ipocrisia del fugace affratellamento natalizio, va meritoriamente annoverato I cerini di santo Nicola (2017) di Vinicio Capossela. Il racconto, scritto per l’omonimo radiodramma del Natale del 2002, ha il merito di svelare con penetrante sensibilità un’umanità lasciata fuori dalle celebrazioni natalizie e da quelle mura domestiche in cui è stato confinato il Natale. La storia ha luogo nei dintorni della stazione di Milano, ma potrebbe essere qualsiasi altra città o metropoli del mondo, in un’atmosfera che oscilla tra l’onirico e il reale, tra contemporaneità e il mondo mitico delle culture subalterne; qui fanno la loro apparizione le anime della notte, personaggi strani ed estraniati, dai tratti quasi beckettiani, i rifiutati dalla storia e dalla società degli uomini, che consumano il loro “vino cattivo” intorno ai fuochi accesi nei bidoni di lamiera. Personaggi che incarnano un aspetto meno celebrato del Natale, quello della solitudine, perché «chi è solo, se ne accorge a Natale!». Grazie a una scatola di cerini trovata per terra, che riscaldano l’anima e «accendono la fantasia e donano la loquenza», i personaggi, come piccoli fiammiferai, combattono la loro solitudine, in attesa della mezzanotte, raccontandosi e ascoltandosi a vicenda. Spentosi anche l’ultimo cerino, compare loro santo Nicola, il più emigrante dei santi, che per la cupidigia e l’avidità delle persone ha lasciato il suo posto a Babbo Natale. Per loro il santo farà un ultimo miracolo: in un’inversione dei ruoli, tipica dei festeggiamenti del periodo natalizio, loro, gli ultimi, diventano i primi da cui i ricchi mendicano un po’ di capacità di parlarsi e di comunicare. E se i desideri non si avverano, con i cerini magici si possono almeno raccontare i sogni, in una messianica e disincantata attesa dell’irruzione del sacro nel mondo, portatore di giustizia e di speranza.