Psicologia
Mostri? …anche no, ma non è rassicurante
In prima pagina la solidarietà, l’empatia, il rispetto innanzitutto, per le donne, le ragazze, le bambine, e anche i bambini, che nella loro ancora giovanissima vita hanno incontrato il trauma atroce dello stupro. È un dramma difficile da elaborare, perché non finisce con l’evento, ma prosegue spesso per via delle modalità con cui capita che vengano volti i vari passaggi giudiziari, e perché è difficile, se non al prezzo di allontanarsi dal proprio ambiente di vita, rientrare sullo sfondo, nell’anonimato della “normalità”.
Ma oggi, mentre in tanti evocano la legge del taglione, l’ergastolo e la castrazione chimica, bisogna che ci occupiamo invece di capire come avviene che degli adolescenti, o poco più, si rendano responsabili e complici di crimini di questa portata, e soprattutto dobbiamo capire come prevenire.
Rispondere alla violenza con una violenza punitiva, esemplare, risolve forse la nostra tensione emotiva, ma non arriva certo alle radici del fenomeno. La storia dimostra che, anche per gli omicidi e altri atti violenti, né l’aumento delle pene, né le condizioni della carcerazione, hanno mai dissuaso dal perpetrare questi crimini. La giustizia deve agire, in modo chiaro, rapido e significativo. Ma non basta a prevenire. Non serve neppure la castrazione chimica, perché la violenza sessuale è un fenomeno culturale, non biologico, e anche se il trattamento chimico abbassa il livello di testosterone, non elimina le possibilità di recidiva, perché non è affatto necessario provare eccitazione sessuale per molestare o stuprare una persona. Meno che mai ha rilevanza in gruppo.
Poniamo allora alcune questioni: cosa c’è alla radice degli stupri? Quanto pesano gli stereotipi di genere? Su quali modelli si forma l’identità maschile? Come potremmo intervenire su questa catena malefica?
Mostruosità o toxic masculinity?
Cominciamo con l’affermare che questi soggetti non sono “mostri”, nel senso che non sono eccezioni deviate, ma sono il frutto orribile e inevitabile di una cultura che ha come feticcio un maschile tossico, dove questo schema della sopraffazione è un parametro di virilità. La responsabilità di questo non può essere circoscritta all’educazione familiare o alla noia di una vita “viziata”. C’è anche questo, certo, ma c’è di più.
C’è un intero impianto culturale che va riconosciuto, stanato e abbattuto. Lo stesso impianto culturale che conduce a sostenere che la molestia breve non è vera molestia, o che gli autori dello stupro non avevano chiaro che la ragazza stesse dicendo di no. Parliamo dell’impianto della cultura patriarcale, di cui la toxic masculinity è il frutto avvelenato, questa angolatura degli stereotipi di genere che accende il maschile di violenza e distruttività.
Se cerchiamo cosa accomuna gli uomini che commettono violenza, su scala collettiva troviamo ideologie connotate da estremismi violenti, mentre talvolta (in rari casi da sola, più spesso accompagnata da tutto il resto) è la psicopatologia la causa dei comportamenti distruttivi su scala individuale.
Tranne queste fasce estreme, al fondo delle diverse manifestazioni della violenza di genere, troviamo una certa immagine del maschile, nella quale un uomo ancora oggi può riconoscersi positivamente e attraverso cui può esprimersi al meglio per ottenere di essere riconosciuto. È questa la toxic masculinity.
Perché il “maschile” non è definito una volta per tutte, è qualcosa che si impara, o si disimpara, attraverso l’educazione e l’influenza esercitata dal contesto. Si nutre di stereotipi, che non solo alterano la decodifica di cosa accade in una relazione (se mi critichi, se mi lasci, mi fai un affronto insopportabile), ma sostengono una specifica cultura del controllo e del potere, che invoca la violenza come necessaria e sana (quando torni a casa, picchia tua moglie, tu non saprai per quale motivo lo fai, ma lei lo saprà di certo). Questa immagine stereotipata del maschile detta le un caratteristiche fisiche e comportamentali, le regole relazionali e sociali che definiscono la virilità. Da lato del contesto, l’idea tossica di mascolinità è sostenuta anche dalla forte asimmetria di potere tra donne e uomini, e da un grado di tolleranza molto alto per i comportamenti prevaricatori e violenti messi in atto dai maschi.
Ma lo stesso contesto produce uomini sovraccarichi di insicurezze personali e sociali, che riescono a esprimere la propria esistenza solo in un ventaglio di modalità molto limitato e insoddisfacente.
Il senso di insicurezza, la paura del fallimento, sono difficili da accettare, perché da un lato entrano in dissonanza cognitiva con l’ideale tossico di mascolinità (l’uomo che non deve chiedere mai), mentre, dall’altro lato, richiederebbero di mettersi in discussione, diventare responsabili, e tutto ciò è molto faticoso.
Dalla frustrazione alla violenza
È molto più semplice e appagante scaricare la frustrazione su un altro essere umano, agendo comportamenti rabbiosi e prevaricatori. La rabbia degenera in violenza e, quando si aggiunge il gruppo, si crea competizione e ci si deresponsabilizza rispetto alle azioni violente, anche orribili, che vengono perpetrate. Il sesso, l’eccitazione sessuale, non sono il movente degli stupri, meno che mai di quelli di gruppo. È la sopraffazione, la dominanza estrema, la pulsione distruttiva, il vero motore di tali delitti. La toxic masculinity questi moventi li contiene tutti.
Toxic masculinity è uno specifico modello secondo cui esercitare il potere come maschi, attraverso la dominanza e il controllo. Quando un uomo che ha introiettato questo ideale perde il controllo sulla persona nei cui confronti esercitava dominanza, o quando non riesce a ottenere questa posizione di potere, si carica di frustrazione, risentimento e odio, e li trasferisce come rabbia e ferocia sugli altri, a volte anche su se stesso. L’altro è L’ALTRA, in questo caso, è la donna che, secondo il copione al femminile dello stereotipo di genere, “dovrebbe stare al posto suo”, dovrebbe essere disponibile e ubbidiente e possibilmente subire in silenzio.
Il modello di comportamento violento espresso contro le donne si può ben replicare su scala più allargata, su un numero plurale di persone, come nelle stragi o nella violenza omofobica, nell’intolleranza razziale o religiosa.
Sulla scala quotidiana, considerare “normale” un certo grado di mancanza di rispetto nei confronti delle donne, discriminarle sul lavoro e nella vita pubblica, considerare il loro corpo come una proprietà di cui poter disporre, dare per accettabile una certa dose di violenza nel quotidiano, sono modalità di rapporto ancora radicate molto profondamente nei ruoli di genere e nei comportamenti che anche in gran parte del mondo occidentale sono considerati ammissibili.
Sulla base del modello della toxic masculinity, l’azione principale che un essere umano è portato a fare per migliorare la sua autostima è dare una dimostrazione del proprio potere, anche a spese di altri esseri umani. La costante e persistente pressione culturale cui sono soggetti gli uomini nel dover dimostrare la propria aggressività e dominanza, e l’accurato evitamento di tutte le manifestazioni definite effemminate o svirilizzanti, li guida passo dopo passo nella stanza degli orrori, col ruolo di prevaricatori, molestatori, aggressori, stupratori, carnefici.
Destrutturare l’iceberg
Questa affermazione non comporta alcuna indebita generalizzazione: ovviamente non funziona l’equivalenza tra l’essere uomini e agire comportamenti violenti. Tuttavia questo modello culturale è talmente pervasivo che è difficile sfuggirvi, se non si lavora duramente in tutti i contesti educativi fin dalla primissima infanzia, in tutta la comunicazione mediatica, in tutte le relazioni tra uomini e donne, pubbliche e private, per destrutturare tutto l’iceberg della violenza di genere, anche nella parte nascosta. Non basta, non è sufficiente inasprire le pene per chi agisce la parte più efferata della violenza contro le donne. Sono comportamenti delittuosi dettati da aree psichiche irrazionali, che non si fermano affatto davanti alla paura della galera. Mentre l’opinione pubblica sazia la sua sete di vendetta mandando in prigione questi criminali e buttando anche la chiave, altri delitti continueranno ad essere commessi, senza tregua.
Il lavoro da fare è molto più profondo e più lungo. Bisogna cominciare, con decisione, con chiarezza. Ogni indugio lo pagherà la prossima donna molestata, stuprata, uccisa.
(Chi volesse approfondire può trovare molto di più, oltre ad un’ampia bibliografia, sul mio libro Libere di essere? Dalla violenza di genere ad un nuovo rapporto tra donne e uomini – Cittadella editrice)