Chiesa e teologia
Modelle, copertine e altari

Nel mese di luglio scorso vari quotidiani hanno riportato una notizia che ha suscitato un certo brusio e molte riflessioni trasversali tra economia, etica ed estetica. La rivista Vogue aveva ospitato due pagine pubblicitarie nelle quali la “modella” perfetta in posa per il marchio Guess era un prodotto dell’Ai. Le critiche piuttosto aspre mosse verso la rivista seguivano principalmente due linee: da un lato le conseguenze economico-lavorative delle modelle in carne ed ossa, dall’altro la questione etica dell’innalzamento degli standard di perfezione fisica che avrebbe prodotto maggiori frustrazioni nelle donne reali, diciamo così.
Come donna (reale) cattolica sono stata catturata per giorni dalle riflessioni intorno a questo fatto, ritenendo che la questione avesse il potere di diventare paradigmatica, non tanto e non solo per chi di professione appartiene al mondo delle copertine, ma per ogni donna alla quale presto o tardi nella vita venga proposto un qualsiasi modello di “perfezione”, fisico, morale o spirituale che sia.
Nella Chiesa cattolica a lungo si è riproposta nella predicazione e nella spiritualità l’immagine della “via di perfezione”, utilizzando il linguaggio stesso di Gesù che, nel famoso episodio dell’incontro con il giovane ricco, si rivolge a lui dicendo: “Se vuoi essere perfetto…” e il seguito che ben conosciamo (cf. Mt 19, 16-22). Alla proposta della “via di perfezione”, generalmente descritta dalle guide spirituali in termini di sacrificio e rinuncia personale, si aggiungevano, inoltre, “modelli di perfezione” rappresentati da figure poste sugli altari quali esempi eroici di virtù… perfette, appunto. Alle donne cattoliche, nello specifico, si richiedeva un confronto serrato con categorie di perfezione legate in particolare alla sfera della sessualità: verginità, purezza, sponsalità e maternità totalmente oblative, pudore, nascondimento del corpo. Si aggiungevano poi categorie di perfezione legate alla sottomissione: silenzio, obbedienza, ascolto, sacrificio, umiltà, docilità. Credo non esista alcuna donna cattolica alla quale non sia stato proposto almeno una volta, durante una Confessione, un’omelia o un colloquio, un modello di perfezione avente almeno alcune di queste caratteristiche.
Oltre che dal messaggio evangelico più autentico, i “modelli di perfezione” risultano distanti anche dalla semplice realtà di chiunque. E lungi dal generare imitazione virtuosa, innescano piuttosto forme di alienazione, fratturando irrimediabilmente il contatto tra realtà e verità. Ogni “modella/o perfetta/o” costituisce di fatto una forma di violenza simbolica, il più delle volte interiorizzata inconsapevolmente, ma capace di irretire e soffocare. Ciò accade tanto nel campo dell’estetica, quanto nel campo morale e non di meno in quello spirituale.
L’esperienza di fede delle donne e degli uomini che incontriamo nelle pagine evangeliche è descritta in termini del tutto diversi: vissuti quotidiani condivisi e intrecci di relazioni in cui l’azione salvifica di Dio si manifesta e si realizza; storie personali che Dio raggiunge e nelle quali parla; gesti di liberazione e di guarigione che sciolgono catene profonde. Non c’è alcuna “via di perfezione” che un credente possa imboccare per sentirsi sicuro. C’è la strada quotidiana costellata di incontri nei quali si apprendono gli strumenti dell’amore e della cura.