Made in Immigrataly, retorica o politica?

La fine orribile di Satnam Singh, il bracciante indiano nelle campagne di Latina lasciato morire dissanguato dal suo padrone, ha scatenato nell’opinione pubblica la solita ondata di indignazione destinata con tutta probabilità a sgonfiarsi rapidamente e a lasciare le cose come stanno. È già successo, e ripetutamente, che sul supersfruttamento del lavoro nei campi, sul caporalato, sulla perversa correlazione tra ricattabilità dei lavoratori immigrati più o meno irregolari e pessime condizioni retributive e abitative, si sia fatta finora più retorica che saggia politica. Con un diluvio di leggi, regolamenti, minacce di sanzioni e promesse di controlli sconfitti in partenza dall’ostinato rifiuto di regolarizzazione degli immigrati, dalla diffusa tolleranza e perfino complicità sociale e istituzionale nei confronti dell’economia sommersa e del lavoro nero, dalla storica scarsità e inefficienza dei sistemi ispettivi. E anche dalla non volontà o incapacità di difendere la produzione agricola dalle pretese di un sistema distributivo – le grandi catene dei supermercati – che per tenere il più possibile bassi i prezzi alla vendita esercitano un’enorme pressione sull’ultimo e più debole anello della filiera, quindi sul costo del lavoro. È fatta di tutti questi temi e anche di molti altri la battaglia per la dignità del lavoro in agricoltura. Compresi quelli dell’innovazione tecnologica del lavoro dei campi, delle abitazioni per i lavoratori stagionali e dei trasporti pubblici con cui raggiungere i luoghi di lavoro, dello sviluppo della contrattazione tra le parti sociali, del coordinamento e dell’integrazione dei servizi tra pubblico, privato, privato sociale. Si deve sapere che in certe aree del Paese questa battaglia si riesce a farla con risultati tangibili mentre in altre – tra cui la politicamente “nerissima” area di Latina – invece no. E che il cordoglio pubblico di un giorno, pur dovuto e indispensabile a non smarrire del tutto se non la civiltà almeno i sentimenti dell’umana pietà, non può bastare.

Dentro le eccellenze di cui andiamo fieri c’è tanta cattiva coscienza

Bisognerebbe, intanto, saper finalmente riconoscere la crescente dipendenza dal lavoro degli immigrati della nostra produzione agricola, una gemma del sempre più celebrato diadema del made in Italy. Un riconoscimento che invece non compare mai nel discorso pubblico sul valore economico e sulle eccellenze di un comparto produttivo che nel 2023 ha superato i 600 miliardi di fatturato e i 64 miliardi di export. E che non può comparire quando ci si sbraccia a farne un tassello fondamentale dell’“identità” anche culturale degli italiani. Ha avuto forse qualche ragione Renato Brunetta, attuale presidente del CNEL, quando nel corso di un recente convegno su questo tema, ha chiamato i partecipanti, governanti inclusi, a riflettere sul fatto che “dentro le eccellenze di cui andiamo fieri c’è tanta cattiva coscienza sul lavoro degli immigrati”. Ma, detta così, è ancora troppo poco. La verità è che si tratta di una realtà molto scomoda in un Paese che, nonostante la stabilità del contributo di quasi 6 milioni di immigrati di prima, seconda e talora terza generazione alla sua vita economica, vive una sorta di schizofrenia tra la narrazione dell’immigrazione come invasione onerosa e socialmente rischiosa e un sempre più evidente bisogno di manodopera straniera in sostituzione di giovani italiani che non ci sono o non sono disponibili.

Chi sono e da dove vengono

Anche sui lavoratori immigrati in agricoltura, quanti sono e da dove vengono, si fanno circolare narrazioni lacunose e deformanti. Non è vero che gli immigrati che lavorano nei campi sono tutti stagionali, tutti “clandestini” o senza permessi di soggiorno, tutti appena arrivati dall’Africa subsahariana, tutti rifugiati o richiedenti asilo. Ed è insensata l’idea diffusa a destra, e purtroppo anche altrove, secondo cui il supersfruttamento in agricoltura sarebbe dovuto alla dilagante presenza di immigrati irregolari, col sottofondo spesso anche apertamente dichiarato per cui per farlo cessare basterebbe rispedirli tutti a casa e sigillare ancora più energicamente le frontiere. Dobbiamo guardare meglio e vedere di più. Si sa che in tempi di populismo i dati oggettivi sono quasi sempre travolti dalle narrazioni interessate, ma i numeri che ci sono e che nessuno può mettere in dubbio raccontano un’altra storia. Gli immigrati che in Italia hanno un lavoro regolare sono 2,4 milioni (il 10% degli occupati), ma in agricoltura il loro contributo è molto più rilevante. Quelli che nel 2022 lavorano nei campi sono 362.000 e rappresentano il 31,7% del totale delle giornate di lavoro registrate, un valore certamente sottostimato perché, sia tra i lavoratori italiani che tra quelli immigrati, c’è sempre lavoro nero non registrato e lavoro grigio solo parzialmente registrato. La componente tradizionalmente più forte, ma recentemente in calo, sono i romeni, 78.000 nel 2022 (ma erano 120.000 nel 2016). Sostanzialmente stabili, dai 12.671 del 2016 ai 14.071 di sei anni dopo, i marocchini. Negli ultimi anni crescono di qualche migliaio gli albanesi e gli indiani, più marcato è l’incremento dei senegalesi (16.229) e dei nigeriani (11.894). Sempre abbondanti, soprattutto nel Nord Est, i flussi di stagionali dall’Europa orientale. Si tratta di presenze per lo più radicate nel settore. Tutti gli studi dicono inoltre che il padronato agricolo italiano, finché ha trovato disponibilità, ha preferito lavoratori di provenienza europea se non altro per evitare complicazioni burocratiche e per tener lontano il rischio di venire accusati di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Dicono anche che moltissimi dei lavoratori immigrati, contrattualizzati o anche non contrattualizzati, hanno una qualche forma di permesso di soggiorno, il che consente alle aziende di ricorrere a diverse tipologie di lavoro grigio, con giornate lavorative registrate regolarmente ed altre no, per poter aggirare controlli, ispezioni, sanzioni. La galassia più complicata è costituita dai grandi afflussi concentrati in alcuni tempi e luoghi dei lavoratori richiamati dalle campagne stagionali di raccolta che si spostano da un sito agricolo all’altro secondo i fabbisogni e finiscono spesso per formare sacche permanenti di marginalità lavorativa, sociale, abitativa. Giorgia Meloni, esprimendo in Parlamento cordoglio e indignazione per la morte “disumana” di Satnam Singh e per lo spietato liberarsi da parte del padrone di quel corpo mutilato da un incidente sul lavoro, ha dichiarato che questa è “l’Italia peggiore”. Proprio così, ma qual è la parte politica che questa Italia della non accoglienza, della non solidarietà, dello sfruttamento estremo, del razzismo la rappresenta di più? E, soprattutto, quali sono le politiche che il suo governo intende fare per migliorarla?

Il supersfruttamento del lavoro immigrato in agricoltura non è un destino immancabile

Nel recentissimo studio “Made in Immigrataly”, commissionato dalla FAI-CISL e condotto da Maurizio Ambrosini, uno dei più solidi esperti di immigrazione, di tutto ciò si riflette sulla base dei dati emersi dalla ricerca. Sfatando stereotipi, pregiudizi, accondiscendenze e complicità, e proponendo sensate, ma finora inascoltate, strategie di ingresso regolare, formazione, integrazione lavorativa e sociale del lavoro immigrato. Tra le piste da battere anche un menù di politiche orientate a liberare le aziende agricole, in particolare le più deboli e le più arretrate tecnologicamente, dalle tenaglie di un sistema distributivo che impone remunerazioni bassissime del lavoro produttivo, col risultato dei 4 Euro l’ora del salario degli indiani, almeno ventimila, che lavorano nelle campagne tra Fondi e Latina. Ma non è ovunque così. Lo studio racconta le consistenti differenze territoriali e le loro storie, analizzando nove casi locali. Nelle realtà meridionali analizzate (Foggia, litorale domiziano, Vittoria-Ragusa) la situazione non è granché diversa da quella su cui la vicenda di Singh ha acceso i riflettori. Con l’aggravante di molteplici insediamenti informali in cui si trovano spesso non solo gli stagionali ma anche i lavoratori stabili. Ci sono casi in cui a combattere concretamente la battaglia dell’accoglienza e dell’integrazione ci sono enti locali, associazionismo, parrocchie, organizzazioni sindacali che allestiscono presidi igienicosanitari e ricoveri di fortuna, ma senza riuscire ad incidere sui rapporti di lavoro e sulla creazione di regolari rapporti tra le parti sociali. L’economia di interi distretti gira del resto proprio sullo sfruttamento intensivo del lavoro immigrato, e niente sembra poterlo mettere in discussione. Problemi simili ci sono anche nel Nord, in particolare nella zona di Saluzzo e soprattutto per i lavoratori arrivati da poco, cui si contrappongono però realtà che vanno molto diversamente. In Trentino, per esempio, le migliaia di lavoratori stagionali che arrivano ogni anno da Paesi dell’Est Europa trovano per lo più condizioni di lavoro regolari e alloggi provvisori dignitosi, mentre il problema più segnalato sia dalle aziende che dai sindacati è che di lavoratori migranti non ne arrivano più a sufficienza. In provincia di Bergamo, come in altre zone della Valpadana, migliaia di indiani lavorano nell’industria zootecnica con impieghi stabili, contratti regolari, abitazioni decenti, ma con possibilità di integrazione sociale limitate dal vivere in aree per lo più spopolate. In Veneto parecchie produzioni di eccellenza assicurano ai lavoratori immigrati trattamenti civili. L’industria delle carni in Emilia Romagna offre lavori pesanti e sgradevoli ma applica i contratti collettivi, stabilizza i lavoratori, supporta col suo tessuto cooperativo l’integrazione sociale. La differenza la fanno ovunque le relazioni tra le parti sociali e la contrattazione. Il supersfruttamento del lavoro immigrato in agricoltura, forse, non è un destino immancabile, le produzioni delle eccellenze del made in Italy possono ricorrere a questo lavoro tutelandolo e riconoscendolo. È l’Italia migliore, ma non contagia le realtà diverse e non influisce ancora abbastanza sul quadro nazionale. Però c’è e insegna che si può fare. Nell’Italia di oggi non è poco.