Europa
Lisbona, ultima chiamata
Con due anni di anticipo, rispetto alla naturale scadenza, il Portogallo si avvia a celebrare una delicatissima tornata elettorale, carica d’incognite e di significati, se non altro perché potrebbe trattarsi di una “prova generale” in vista delle elezioni europee del prossimo giugno. E perché potrebbe cambiare la “traiettoria politica” di uno degli ultimi baluardi virtuosi della sinistra rimasti in Europa. Qui il governo socialista è al governo dal 2015. Ma il primo ministro António Costa si è dimesso lo scorso novembre perché coinvolto (si scoprirà poi per un errore dei magistrati, per un caso di omonimia) in un’inchiesta per corruzione, che aveva comunque travolto il capo del suo staff, Vítor Escária, e i ministri dell’ambiente, Duarte Cordeiro, e delle Infrastrutture, João Galamba. Costa aveva immediatamente preso le distanze: «Non c’è alcun atto illecito che pesi sulla mia coscienza, e nemmeno un atto censurabile. Tuttavia – aveva aggiunto – la funzione di primo ministro non è compatibile con alcun sospetto sulla sua integrità, sulla sua buona condotta e ancor meno con il sospetto della pratica di qualsiasi atto criminale». Così aveva rassegnato seduta stante le sue dimissioni, irrevocabili. E il presidente portoghese Marcelo Rebelo de Sousa le aveva subito accettate, anche perché il governo veniva da mesi di navigazione agitata, costretto a continui rimpasti. Si voterà il prossimo 10 marzo. E l’esito è tutt’altro che scontato
Perché i socialisti, che nel frattempo hanno cambiato leader (l’attuale è Pedro Nuno Santos, che nel penultimo governo Costa era stato ministro delle Infrastrutture), questa volta rischiano seriamente di passare all’opposizione. Non tanto, o non soltanto, per i numeri assoluti: il PS, secondo gli ultimi sondaggi, dovrebbe risultare comunque il partito più votato, anche se con percentuali parecchio inferiori rispetto al più recente passato (dal 41,3% raccolto nelle elezioni del 2022 siamo ora, a un mese dall’appuntamento con le urne, attorno al 26,4%). Quanto invece per il gioco delle alleanze: perché la coalizione di centrodestra incalza, con il Partito Socialdemocratico, che a dispetto del nome ha posizioni marcatamente conservatrici e che ha già raggiunto accordi con i centristi del Partito Popolare (CDS), accreditato del 20,8%. Mentre i nazional-populisti di estrema destra di Chega (che in portoghese vuol dire “Basta”) si piazzano al terzo posto con il 16,6%. L’ex premier Costa, in passato, non ha esitato a mettere in piedi alleanze “fantasiose” con i partiti minori della sinistra (in Portogallo la chiamano “geringonça”, un’espressione popolare che letteralmente vuol dire “aggeggio”, a significare qualcosa di improvvisato, realizzato in modo precario o con pezzi di diversa provenienza). Ma questa volta, sempre stando ai sondaggi, i Socialisti potrebbero contare, unendo tutte le forze di sinistra (Partito Comunista, Blocco di Sinistra e Verdi) appena sul 41,2% dei voti, contro un 42,8% del centrodestra, se l’alleanza tra Socialdemocratici e Partito Popolare abbracciasse anche Chega e i Liberali. Luis Montenegro, leader dei Socialdemocratici, l’ha ripetuto più volte: nessun accordo con partiti xenofobi e razzisti. Ma un conto è la teoria, poi all’atto pratico qualsiasi intransigenza può diventare una possibilità (soprattutto se dovesse profilarsi l’occasione di mandare in archivio la quasi decennale stagione dei Socialisti). Però Chega innalza proprio sul razzismo la sua bandiera: il suo leader André Ventura (che lo scorso anno, dopo aver portato il suo partito oltre il 7% dei consensi, incassò anche il plauso della presidente del consiglio italiana) si scaglia spesso e volentieri contro la comunità Rom, accusandola di essere «una minaccia per la salute pubblica» e proponendo per loro «misure speciali di confinamento». Ventura, ex giornalista sportivo, laurea in giurisprudenza e, a suo dire, fervente cattolico («Sento che Dio mi ha dato questa missione»), ha un programma che ricalca e amplifica quello già visto, sentito e letto tante volte altrove, in questa stagione di “vento di destra” che sta agitando le democrazie europee (e non soltanto): è nazionalista, sovranista, sostiene la castrazione chimica per i pedofili, vorrebbe limitare i diritti dei reclusi e degli immigrati, impedendo ai clandestini la possibilità di accedere all’assistenza sanitaria. A livello fiscale, propone una sola aliquota “piatta”, a prescindere dai livelli di reddito. Vuole privatizzare la sanità e l’istruzione. È contro l’aborto. E ha sostenuto con convinzione che «non sarebbe male tagliare la mano a qualche ladro», così, per dare l’esempio. Ecco, perfino un partito del genere potrebbe trovare spazio nel prossimo governo portoghese, sempre ammesso che le altre formazioni di centrodestra siano disposte ad accoglierlo.
Colpisci una talpa
Sembra folklore, ma non lo è: è invece l’espressione di un’estrema destra, spesso becera e oscena nei contenuti, che sta raccogliendo sempre più adepti. Che alza muri, che accetta e a volte alimenta le disuguaglianze sociali, che non si cura della difesa dei diritti delle donne e delle minoranze. Una destra che, probabilmente perché sottovalutata, sottostimata anche nella portata della sua “pericolosità democratica”, è riuscita a risalire negli anni le gerarchie della politica, fino a conquistare ruoli più o meno di primo piano negli esecutivi europei. Pensiamo all’Olanda, alla Svezia, all’Austria, alla Slovenia, alla Grecia, alla stessa Italia. Come scrive il Financial Times: «La lotta per contenere il populismo politico nell’Europa centrale a volte sembra un gioco di “colpisci una talpa”. Non appena viene messo un coperchio in un paese, salta fuori in un altro». E attenzione a quel che a breve potrebbe accadere nelle “cancellerie che contano” del vecchio continente: in Germania, con l’avanzata impetuosa dei neonazisti di Alternative für Deutschland, o in Francia, con il Rassemblement National di Marine Le Pen che punta dritta verso l’Eliseo e che sta spingendo all’angolo un arrancante Macron, il quale sta disperatamente tentando di virare a destra, nella speranza, probabilmente vana, di mantenere un qualche appeal nell’elettorato. Entrambi i partiti, peraltro, stanno applicando ultimamente la stessa strategia: cavalcando la protesta degli agricoltori (ricordate la Lega Nord negli anni ’90 e la battaglia sulle quote latte?) e prendendo di mira le politiche agricole dell’Unione Europea (sta accadendo anche in Polonia, in Romania, in Lituania, oltre che in Italia). Sembrano questioni interne, sono invece un disegno, una strategia che punta direttamente alle prossime elezioni europee.
Ed è perciò che il Portogallo può diventare un test probante di quel che potrebbe accadere a giugno, nella composizione del nuovo Parlamento Europeo. Il tema di fondo è ormai svelato, palese: il blocco di destra punta a raggiungere un numero sufficiente di voti per scalzare i Socialisti dalla maggioranza. E quel che fino a qualche mese fa sembrava una speranza un po’ ingenua, ora invece comincia a delinearsi come una reale e concreta possibilità. Il centro studi European Council on Foreign Relations ha appena pubblicato un’analisi che, prendendo in considerazione i sondaggi realizzati in tutti gli stati membri e applicando un modello statistico già testato, prevede tra quattro mesi “una brusca svolta a destra”. Secondo gli analisti di Ecfr, i partiti della destra nazionalista sono al momento in testa in 9 stati (Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria, Italia, Paesi Bassi, Polonia e Slovacchia), mentre in altri 9 si potrebbero piazzare secondi o terzi (Germania, Bulgaria, Estonia, Finlandia, Spagna, Lettonia, Portogallo, Romania e Svezia). Così il gruppo di destra radicale “Identità e Democrazia” (ID), di cui fa parte anche la Lega in compagnia di Rassemblement National e di Alternative für Deutschland, potrebbe passare da 58 a 98 seggi e affermarsi come terza forza al Parlamento di Strasburgo. A dir la verità la stima sembra un po’ generosa (altri sondaggi, come quello dell’autorevole quotidiano Politico, accredita il gruppo di 85 seggi). Ma è pur vero che la somma dei gruppi ID e ECR (i conservatori europei, ne fanno parte anche Fratelli d’Italia e i sovranisti polacchi di Diritto e Giustizia) al momento è comunque superiore ai seggi di S&D (Socialisti e Democratici): 165 contro 140, o giù di lì.
Il grande rischio: UE alla destra e Trump alla Casa Bianca
Quindi i numeri dicono che sì, la destra potrebbe tentare la spallata. Che se il Partito Popolare Europeo, anche lui quotato in leggero declino, decidesse di cambiare “partner” avrebbe i numeri per farlo. Perfino facendo a meno dei liberali di Renew Europe. Ppe e i due gruppi di destra potrebbero contare, stando alle proiezioni più moderate, su 335 seggi, su un totale di 704. Quel che manca per raggiungere la maggioranza potrebbe arrivare da un “colpo di scena” dell’ultimo minuto: l’affiliazione di Fidesz, il partito del leader ungherese Viktor Orbàn, fuoriuscito nel 2021 dal Ppe appena prima di essere espulso, sotto le insegne dei Conservatori Europei. Fidesz, secondo calcoli, potrebbe portare 14 seggi: la maggioranza sarebbe a pochi centimetri. In realtà Orbàn sta lavorando da tempo a questo progetto: guidare un movimento paneuropeo, profondamente illiberale e intriso di nazionalismo, per «rovesciare l’élite progressista e prosciugare la palude di Bruxelles», come lui stesso ha annunciato pochi mesi fa. E attenzione alla possibile “saldatura” tra un’UE con la destra a distribuire le carte e un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca: l’esito potrebbe avere conseguenze radicali sull’assetto geopolitico dei prossimi decenni. Perfino il leader ad interim di Renew Europe, l’olandese Malik Azmani, ha ormai preso atto che il problema esiste, ed è grave: «La minaccia di un Parlamento europeo con l’estrema destra al posto di guida è reale. In un’epoca di crisi e di incertezza geopolitica, un’Europa unita che offra soluzioni, non più divisioni, è più che mai necessaria».
C’è un altro studio interessante, sempre elaborato dall’European Council on Foreign Relations, che individua i cinque argomenti che più stanno a cuore agli elettori europei (il sondaggio è stato condotto in 9 stati membri, più Regno Unito e Svizzera) e che di certo plasmeranno il prossimo voto: cambiamento climatico, crisi economica globale, immigrazione, guerra in Ucraina e pandemia. L’immigrazione, informano dall’Ecfr, è sentita come “principale preoccupazione” in Germania, mentre il cambiamento climatico è in cima ai pensieri di Francia e Danimarca. In Italia e in Portogallo il tema più sentito è invece la crisi economica. I timori per la guerra in Ucraina crescono avvicinandosi ai paesi più vicini agli scenari di guerra. E quali effetti potrebbe avere un’impennata di seggi per la destra nel Parlamento Europeo? Di certo sarebbero un ostacolo alle politiche verdi, al Green Deal europeo, che rischierebbe un drastico ridimensionamento, soprattutto nell’obiettivo finale, quel “zero emissioni” da raggiungere entro il 2050. Come significherebbe un sostanziale “avvicinamento” dell’UE alle ragioni di Putin. Ma certo anche la battaglia decennale dell’Unione Europea contro Ungheria e Polonia sull’applicazione dello Stato di diritto si complicherebbe di molto. «Nelle elezioni del Parlamento europeo del 2019 la lotta è stata principalmente tra i populisti, che volevano voltare le spalle all’integrazione europea, e i partiti tradizionali, che volevano invece salvare il progetto europeo dalla Brexit e da Donald Trump», ha dichiarato Mark Leonard, direttore dell’Ecfr. Mentre Ivan Krastev, presidente del Centre for Liberal Strategies, con sede a Sofia, in Bulgaria, evidenzia il cambiamento di fondo dell’elettorato: «I cittadini europei si stanno allontanando dai vincoli ideologici di destra e sinistra, nel contesto di come vedono la politica nell’Unione Europea; sono invece guidati, nelle loro scelte, dalle crisi che hanno influenzato le loro vite negli ultimi anni». Non più ideologia, ma “convenienza personale”, necessità, perfino egoismo di fronte a difficoltà che spesso vengono percepite come insormontabili. Chissà se è troppo tardi per invertire la rotta: le elezioni in Portogallo saranno una prova generale.