L'editoriale
L’inattualità necessaria
Mentre scrivo un alito di vento appena accennato porta dentro la redazione il suono festoso delle campane della Basilica , tra un rintocco e l’altro arrivano le voci soprattutto di donne e giovani siciliani che quest’anno portano l’olio alla lampada che arde sopra la tomba di Francesco d’Assisi fino al prossimo 4 ottobre, allorché un’altra regione porterà il suo dono e riceverà il messaggio di questo esuberante giovane assisano che ha perso la testa dietro a Cristo, dall’abbraccio del lebbroso ai mostaccioli di frate Jacopa de’Settesoli che diedero un piccolo momento di letizia nell’ora dell’ultimo transito, un ultimo morso alla terra amata.
Perché Francesco non ha insegnato la fuga mundi, non ha scelto le alture monastiche che accorciano la distanza tra terra e cielo, ha deciso di piantare tende nelle pianure, nella piana di Rivotorto e di Santa Maria degli Angeli, nella compagnia degli uomini e di tucte le creature. Ha indossato un sacco contadino, non un abito religioso, e ha chiamato i suoi compagni semplicemente fratelli; ha obbedito alla Chiesa ma non si è fatto prete. Ha vissuto una sequela evangelica semplice ed esigente e per regola avrebbe preferito solo il bollo del Vangelo. È morto passando per il dolore della croce e la gioia del cantico secondo il più profondo paradosso cristiano. Si è sentito libero nella povertà anzi, per la povertà che scioglie i lacci, gli attaccamenti, le schiavitù. Ha sentito anche nell’incomprensione, persino dei suoi, la perfecta laetitia di chi vive un’altra cittadinanza, più profonda; in essa i valori non sono quelli della mondanità e attingono ad una sorgente nella quale chi subisce disarma l’aggressore e sirano incoronati coloro che sostengono in pace infirmitate et tribulatione. Seppe passare la mano del governo del grande movimento di uomini e di donne (poiché la gente poverella crebbe), di coloro ai quali correndo li parve esser tardi. Al capitolo delle stuoie in Santa Maria degli Angeli, nel 1221, pare fossero in cinquemila! Il popolo nuovo, nato come per miracolo, intorno a Francesco. La chiesa che rinasce povera e fraterna. Una chiesa in uscita davvero, disarmata fin nel campo nemico, capace di scommettere sulla forza di una risposta asimmetrica, sull’homo absconditus che può essere raggiunto oltre i confini delle identità e delle loro blindature.
Un messaggio radicalmente inattuale. Lo si capisce passando dal suono delle campane allo schermo del cellulare. Non solo l’estendersi dei fronti di guerra, l’uso di armi non convenzionali, la recrudescenza del terrorismo, le flatus vocis degli organismi sovranazionali, l’azzeramento della cogenza e della credibilità del diritto internazionale, ma il farsi strada sempre più intenso della corsa al riarmo, la ricollocazione sul versante militare della spesa pubblica (dal welfare allo warfare come si è detto) secondo un disegno lucido e luciferino che tiene insieme gli investimenti per distruggere e quelli per ricostruire, il gioco pericolosissimo sull’uso dell’arma atomica, il crescere di una mentalità che vede nella difesa armata l’unica possibilità di sicurezza, contro ogni evidenza storica. Solo alcuni dati allarmanti: nel 2023 sono stati spesi per investimenti militari 2443 miliardi di dollari; l’aumento di spesa per le armi atomiche negli ultimi quattro anni è stato del 34%; il traffico di armi è il settore più vitale dell’economia e l’Italia occupa il sesto posto.
Così mentre la scienza e la tecnologia consentirebbero finalmente di rendere praticabile il sogno di Owen e quindi di liberare progressivamente l’umanità dai lavori più gravosi affidandoli alle macchine e di produrre beni perché tutti abbiamo la possibilità di vivere dignitosamente, i grandi interessi che passano e piegano perfino gli Stati scelgono di battere la via tragica e redditizia della guerra. Tutto questo rende frate Francesco un estraneo retoricamente celebrato ma marginale come i lebbrosi del suo tempo. Tra l’altro non è un santo che stupisca con prodigiosi miracoli. Eppure l’uomo della scandalosa pubblica spoliazione fu anche un uomo realista: non ruppe mai con la Chiesa (come diversi movimenti dell’epoca), non tentò di delegittimare i poteri civili. Quando ad Assisi scoppiò una controversia tra il podestà e il vescovo Guido con tanto di scomuniche e sanzioni reciproche, si dice che Francesco aggiunse al Cantico la strofa di quelli che perdonano per lo tuo amore… e la fece cantare ad alcuni suoi fratelli durante l’incontro che organizzò tra i due perché, come avvenne, si riconciliassero. Con questa creativa e coraggiosa mediazione si ritrovò la pace nella polis.
Questa attitudine realistica di Francesco non è affatto in contraddizione con la sua radicalità evangelica. È l’etica della responsabilità che si fa carico della pace possibile (e la pace possibile non è quasi mai quella completamente giusta) senza rinunciare all’etica della convinzione. “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”, così scriveva Paolo ai cristiani della Galazia. Eppure la schiavitù è ancora durata per secoli e così la subordinazione della donna. Ma ormai l’ascia era alla radice e il veleno ugualitario del Cristianesimo, per dirla con Nietzsche, si stava diffondendo. Anche oggi, insieme al realismo nella ricerca di soluzioni pacifiche e di un nuovo equilibrio di pace, dobbiamo piantare in quest’autunno della storia, i semi di una rivoluzione nonviolenta tra umani, viventi e ambiente (tucte le tue creature) che nel tempo propizio posta sospingere un processo di umanizzazione mai approdato a rive sicure: perché l’uomo non è un dato ma un compito.