Riflessioni
Liceo che passione

Gli studenti italiani preferiscono il liceo, meglio se scientifico. Senza effetti tangibili, si direbbe, sono le tante campagne di questi anni sul rilancio dei saperi tecnologici. E sull’alto indice di occupabilità degli esperti in tecnologie che le imprese industriali oggi stentano a trovare. Resta infatti debole, e anzi diminuisce ulteriormente la scelta degli istituti tecnici e professionali. Quelli che pur consentendo il proseguimento nell’università, guardano soprattutto al lavoro dopo il diploma. Le iscrizioni dopo la scuola media confermano anche per il 2025/26 il trend che dura da tempo. L’istruzione liceale, che in gran parte dei paesi Ue costituisce il 30-35% della scolarità, da noi ha raggiunto il 53%. In testa ci sono le tre opzioni del liceo scientifico (tradizionale, delle scienze applicate, sportivo) che da sole intercettano il 25% dell’intera scolarità liceale. Ciò che di questo indirizzo appare più promettente è l’equilibrio tra materie scientifiche ed umanistiche, la porta aperta, si spera, per studi ulteriori di ogni tipo. Non a caso è proprio nello scientifico che si realizza il miglior equilibrio anche di genere.
Seguono a distanza i licei delle scienze umane e sociali, i linguistici, gli artistici, i classici (5,3%) e poi i musicali e i coreutici. Mentre perde altri colpi e non supera il 30% l’istruzione tecnica, in cui l’indirizzo di economia e finanza prevale su informatica e tecnologie dell’automazione. Restano sotto il 13%, sempre più marginali, i professionali dove il successo maggiore va alla formazione a servizi come l’enogastronomico e l’ospitalità alberghiera. Perché una licealizzazione così spinta? Hanno certo influito le politiche degli ultimi decenni che, guardando per lo più a ridurre la spesa, hanno penalizzato sia i tecnici (con l’invenzione degli scientifici di scienze applicate e il “senza latino”) che i professionali (con la liquidazione degli istituti di arte e artigianato confluiti nei licei artistici). Tutto il comparto soffre del resto di risorse strumentali e professionali insufficienti a modernizzare i laboratori, e qualificare la didattica che vi si svolge. Un disastro per gli indirizzi tecnologici che dovrebbero sviluppare competenze tecnico-operative, e per la motivazione a sceglierli. Nonostante un mondo sempre più immerso nelle tecnologie, i tecnici sono ancora visti come le scuole dei penultimi (e i professionali degli ultimi), dove di solito non si va per accertata vocazione ma per minor successo scolastico, minore interesse agli studi, maggiori necessità di inserirsi presto nel lavoro. Ma non si tratta solo di questo.
ANCORA E SEMPRE LE DUE ITALIE
Si capisce di più dal diversificarsi del rapporto tra i comparti nelle diverse aree del Paese. Se a Milano, in Lombardia, Veneto, Friuli, Emilia-Romagna, la scelta dei licei si assesta tra il 48 e il 50%, a Roma città dei ministeri e del terziario schizza al 70%, e va più o meno così anche in Campania, Sicilia, Calabria, Abruzzo, Molise. Specularmente, se in area meridionale tecnici e professionali precipitano ben sotto i valori medi nazionali, è nel Nord e in parte del Centro che si trovano gli istituti tecnici industriali più prestigiosi ed attrattivi, resi vitali e innovativi da una duratura tradizione di rapporti con le imprese, e talora anche con la ricerca universitaria. Un indicatore di spiccata diversificazione territoriale è anche il liceo classico, che a Roma presenta valori doppi rispetto alla media nazionale (e in alcune città del Meridione anche tripli) mentre nel Nord scivola anche sotto il 4%. Ancora e sempre le due Italie, quella che guarda soprattutto tutto agli impieghi pubblici e alle professioni “liberali” tradizionali, e quella che dagli stimoli di un tessuto industriale importante e in trasformazione ha derivato anche una più articolata domanda sociale di istruzione. Ovvio che anche le popolazioni scolastiche risultino parzialmente diverse, e che certi tecnici del Nord intercettino anche quote importanti di studenti con buon successo scolastico e condizioni sociali tutt’altro che svantaggiate. Lo certifica l’Invalsi. In matematica e in inglese alcuni istituti tecnici a nord di Roma ottengono risultati più brillanti di tanti licei scientifici del Sud. La prima riflessione è dunque che a contare è anche la tipologia del contesto economico. E la cultura sociale del lavoro e dell’istruzione che la sostiene.
MATERIALE E IMMATERIALE
Ma c’è dell’altro. Non si può sottovalutare che sulla scelta degli indirizzi di profilo più spiccatamente tecnologico pesa negativamente anche il ritardo italiano (mediterraneo?) in termini di minore propensione femminile a misurarsi con la matematica, la fisica, le scienze nella loro declinazione tecnico-operativa (la stessa che anche negli studi universitari vede ancora i percorsi di ingegneria civile e industriale largamente disertati dalle ragazze, da sempre ben sotto il 30%: mentre medicina e biologia, dove scienza e tecnica si applicano alla vita, si stanno fortemente femminilizzando). Un’arretratezza che affonda le sue radici non in una presunta incapacità femminile ai linguaggi scientifici ma in stereotipi sessisti relativi ai saperi e ai lavori “inadatti alle donne” in Italia ancora assai diffusi sia nella scuola che nelle famiglie, e largamente interiorizzati dalle ragazze stesse. Nelle classifiche Ocse l’Italia occupa i gradini più bassi per quel che riguarda la partecipazione femminile ai percorsi Stem (matematica, ingegneria, tecnologie).
Ma ci sono altri motivi della maggiore attrattività degli studi liceali su quelli orientati al lavoro subito dopo il diploma. Il fatto è che i primi, orientati al proseguimento degli studi in ambito universitario, implicano il “lusso” (che è segno e sostanza di privilegio sociale, e quindi apprezzato status symbol per le famiglie del ceto medio) di rinviare la scelta del futuro lavorativo per altri cinque anni dopo la scuola media. Il rinvio, oggi, non deriva più solo dalle incertezze sul futuro del lavoro tecnico in ambito industriale, è avvolto nelle inquietudini dell’ “ecoansia” sul futuro del pianeta, si impasta con le connotazioni psico-identitarie di una generazione di giovani insofferente della fatica della decisione. Abituata anzi, in una sorta di adolescenza illimitatamente protratta, a rinviare a un futuro di là da venire ogni determinazione tipica dell’età adulta: da quelle relative alla vita privata come sposarsi o fare figli a quelle che hanno a che fare con il futuro professionale. A chi nelle scuole e fuori svolge attività orientative capita spesso di avere a che fare con giovani incertissimi su quali studi intraprendere dopo la maturità anche alla fine della quinta classe della superiore, anche nell’estate che precede l’immatricolazione, in una sarabanda di partecipazioni ai test di ingresso delle più diverse specialità universitarie. E le incertezze restano spesso anche nel primo e secondo anno degli studi universitari, con una quantità non fisiologica di passaggi da una facoltà all’altra e di abbandoni motivati dalla tardiva scoperta di aver fatto la scelta sbagliata.
LA SCUOLA, PER COME È FATTA, NON AIUTA
Non è solo problema di “orientamento”, anche se quello che si fa per lo più nella scuola, affidato com’è a insegnanti costretti a improvvisarsi orientatori, non è proprio il meglio. È la struttura della scuola che non va bene. Intanto perché obbliga a scegliere tra comparti e indirizzi della scuola superiore a 13 anni, all’inizio della terza classe di scuola media: un’età troppo acerba per aver capito davvero cosa si è interessati a studiare in cui finiscono per contare più di tutto le condizioni socioeconomiche e le aspettative dei genitori (con le complessità correlate a più di 900.000, l’11% del totale, di studenti e relative famiglie con background migratorio, più povere e meno informate). A quasi un ventennio dall’introduzione dell’obbligo di istruzione decennale, cioè fino ai 16 anni, si sarebbe dovuto da tempo spostare l’esame di stato dalla terza media alla fine del primo biennio della superiore, assicurare bienni più unitari e più coerenti con il profilo “orientativo” disposto dalla legge, dedicati al consolidamento delle competenze di base più che alle materie distintive di ogni indirizzo e, anche tramite materie opzionali, a un migliore accertamento degli interessi/vocazioni individuali. Non solo. Si dovrebbe anche, con apposite “passerelle” rendere più agevoli gli eventuali cambi di indirizzi. Tutte operazioni possibili (e vantaggiose anche in termini di contrasto degli abbandoni tra scuola media e superiore) che richiederebbero però un intervento sugli ordinamenti, quindi una riforma di quelle sparite da tempo dall’agenda della politica. Ma è solo o principalmente da qui che si può contribuire a rendere socialmente più eterogenee le popolazioni scolastiche dei diversi comparti contrastando quella gerarchizzazione tra licei, tecnici, professionali che condiziona gli ingressi e gli esiti più di ogni altro fattore. Che prefigura un destino scolastico che si concretizza in diversi destini professionali e di vita, in aperta contraddizione con il ruolo della scuola pubblica che è appunto quello di rimescolare le carte sociali e culturali di partenza: le vocazioni, appunto, i talenti, le propensioni e le intelligenze diverse e, se vogliamo, anche i “meriti”.
IL 4+2 CHE NON DECOLLA
È in questo quadro di sostanziale immobilità, fra l’altro, che riesce difficilissimo far decollare con numeri significativi anche la sola sensata riforma ordinamentale cui si è approdati negli ultimi anni, quella della “filiera corta” di quattro anni di istruzione tecnica + due dedicati a una formazione tecnico-professionale di livello terziario, i “super periti” di cui il mondo del lavoro ha urgente bisogno. Il ministro Valditara quest’anno si vanta delle 5.450 iscrizioni alla prima classe del nuovo percorso che è riuscito ad ottenere, ma si tratta di numeri modestissimi, non più dell’1% della scolarità di livello secondario, che non assicurano neppure l’avvio di tutti i percorsi specifici attivabili. Poco, pochissimo rispetto all’entità delle risorse Pnrr dedicate (1,5 miliardi) e all’altezza della sfida. Se non un flop, qualcosa che gli assomiglia molto. Non si può fare con un’istruzione tecnica a platea ridotta e troppo omogenea, in cui lo stigma tradizionale e classista dei “penultimi” allontana quote importanti di giovani con buon successo scolastico, interessi specifici effettivi, e solide motivazioni degli studenti e delle loro famiglie a percorsi lunghi. Senza la base, si dovrebbe sapere, non si può suonare.