Riflessioni
Le religioni e l’urgenza di pace

In un tempo, quale il nostro, in cui il linguaggio che domina la sfera pubblica sembra essere quello della guerra, è fondamentale continuare a cercare argomentazioni per sostantivare un discorso di pace. Anche le religioni istituzionali dovrebbero impegnarsi in questo sforzo di pacificazione, per esempio proponendo una rilettura critica di quelle schegge di violenza presenti in alcuni passaggi delle differenti scritture sacre. Sarebbe opportuno sottolineare che il Dio implacabile dai toni violenti è, in genere, quello che parla all’essere umano con l’immediatezza di immagini e azioni facilmente decodificabili, usate per comunicare con urgenza qualcosa, per muovere e per con-muovere una persona o addirittura una comunità. Nelle scritture religiose, in altri termini, si usa spesso un linguaggio espressionistico, gridato ed efficace nella sua ruvidezza, finalizzato al risveglio delle coscienze. A volte, tuttavia, questo espressionismo viene strumentalizzato, anche con la connivenza attiva dei credenti e delle istituzioni, per sostenere ragioni di parte e per rilanciare una retorica intollerante e fondamentalistica, mentre più che mai ci sarebbe bisogno che le religioni si decidessero a parlare di pace, abbandonando ogni calcolo e ogni triste politica di potenza. La pace prima di tutto, come premessa per organizzare ogni altro argomento, come condizione indispensabile di credibilità, dovrebbe essere la preoccupazione di ogni coscienza autenticamente religiosa, di ogni credente che afferma l’esistenza di Dio.
IL DOPPIO SIGNIFICATO DEL TERMINE PACE
L’articolazione di un vocabolario pacifista, tuttavia, dovrebbe essere in grado di estendersi ad almeno due delle accezioni che il termine pace possiede in senso religioso. Da un lato, infatti, dovrebbe trasformarsi in un discorso che metta al centro l’edificazione di un mondo più giusto e, dall’altro, dovrebbe essere capace di ospitare un’esigenza di assoluto, nella convinzione che la pace autentica venga da Dio o, a seconda delle tradizioni, coincida con Dio stesso. Più specificatamente, nell’alveo del primo significato, costruire la pace vorrebbe dire credere nell’essere umano, nelle sue potenzialità e, quindi, per estensione, confidare nella storia, impegnandosi affinché si possa vivere in società più giuste, più equilibrate, nel segno della condivisione e della fratellanza. Seguendo il secondo significato, invece, cercare la pace significa avvertire l’esigenza di andare oltre se stessi, oltre il mondo delle cose, oltre ogni frammentarietà, avviandosi in un cammino spirituale ed esperienziale che riesca a condurre al di là di ogni asfissiante contingenza.
PACE COME GIUSTIZIA
Il primo ordine di significati, dunque, obbliga le religioni a entrare nelle dinamiche del mondo e della storia, a sporcarsi le mani, a guardare negli occhi l’umanità delle persone e a sentire i problemi del creato come assolutamente imprescindibili. Tendere alla pace, in questo senso, costringe le persone di fede ad un impegno concreto nel mondo, a diventare protagonisti e, soprattutto, a sentirsi responsabili di ciò che accade. Coincide, cioè, con un essere chiamati in causa direttamente, con un sentirsi interpellati dall’urgenza dei problemi, con un essere attivi e dinamici all’interno delle coordinate storiche in cui si è chiamati a vivere. E tale impegno deve radicarsi nella concretezza delle situazioni, senza retorica e senza enfasi, guidato dal realismo di chi non teme di analizzare i fatti per quello che sono, e animato dalla forza di chi non demanda ad altri ciò che gli compete. Si tratta, quindi, di un coinvolgimento etico profondo, radicato nel sentimento religioso che, se autentico, cattura il credente e lo costringe ad avvertire l’altro, a seconda dei linguaggi religiosi, “vicino”, “fratello” o, addirittura, “uno” con sé. È, questo, un agire che richiede progettualità e non solo adesione spontanea ed emotiva, capacità di analisi politica e non solo buoni sentimenti, per non incappare nelle logiche spesso anti-umanistiche dei ragionamenti economici puri ed astratti, delle esigenze aritmetiche che costringono alle quadrature di bilancio. Comporta, dunque, un pensare il mondo, un elaborare sistemi di valori, un formalizzare idee di solidarietà in accordo con gli insegnamenti di amore, di rispetto, di dialogo che emergono chiarissimi in tutte le Scritture delle più diverse religioni.
PENSARE LA PACE, CONSAPEVOLI DEI RISCHI
Ma proprio in questa riflessione ideologica che la costruzione del mondo presuppone si nasconde anche una grande insidia, nei cui lacci possono cadere – e la storia ci ha insegnato che spesso sono caduti – i credenti. Il pericolo, infatti, sta nel non rendersi conto che quell’idea di pace, di per sé necessaria se si vuole realizzare un mondo migliore e più giusto, risulta sempre limitata e in difetto, sempre parziale e sghemba. Se non si comprende ciò, si finisce col credere che esista una sola e concreta traduzione possibile del termine pace a livello storico, la propria, e si combatterà per difenderla nella sua integralità, senza percepire che, al contrario, essa necessita sempre di aggiustamenti. Le istituzioni religiose dovrebbero aiutare i credenti a comprendere che non è il valore in sé, nella sua astrattezza, ad essere relativo, ma la sua interpretazione in una data situazione e in una data epoca. Senza questa leggerezza interpretativa, le religioni finiranno sempre col tradire le loro istanze di pace. Avremmo necessità di autorità religiose istituzionali che sappiano insegnare tale leggerezza, indicando bene i valori, ma, insieme, chiedendo costantemente ai credenti di problematizzarli, di diventare eretici rispetto alle certezze marmoree, perché la traduzione storica dei valori non è mai terreno fertile per gli assoluti perentori. In caso contrario, le religioni si trasformano in puri sfiati culturali e divengono l’espressione di una data civiltà. Quando poi le religioni si trasformano in meri strumenti di una cultura, finiscono anche col diventare solo uno degli argomenti di quella stessa cultura, prestandosi al gioco delle manipolazioni; divengono arma di offesa e di difesa culturale, rinforzo delle identità di un popolo, delimitando il terreno di ciò che può essere considerato simile e, quindi, accettabile, e stabilendo ciò che va considerato diverso e, di conseguenza, pericoloso.
Con questo, ovviamente, non si vuole affermare che le religioni non siano intrecciate con la cultura anche in senso positivo e che tale interconnessione non abbia portato alla fioritura dell’arte, della letteratura, del pensiero, ossia ad altissime espressioni dell’ingegno umano. Non si vuole nemmeno sostenere che le religioni non abbiano contribuito a fondare valori condivisi all’interno dei diversi contesti, rifornendo le culture di simboli e di ideali preziosi e, per certi versi, imprescindibili. Si vuole soltanto sottolineare che l’impasto religione-cultura è inevitabile e sempre da tenere sotto controllo, in modo da evitare che si compatti in forme chiuse e taglienti, ben sapendo che il rischio del fondamentalismo è sempre in agguato, pronto ad aggredire la sensibilità del credente ingenuo. Ciò significa comprendere davvero che le differenze, pur essendo di per sé difficili da gestire, sono un valore e che deve esistere obbligatoriamente un modo, sempre da ricercare, per apprezzare tale valore. Ma – è bene ripeterlo – questa modalità non è mai data dall’alto e una volta per tutte; al contrario, si nasconde nel divenire, ed è essa stessa in divenire, com’è in cammino l’esistenza di ciascuno.
PACE COME SETE DI TRASCENDENZA
Accanto a questo aspetto più storicizzato, poi, sarebbe necessario che i linguaggi religiosi ne rilanciassero anche le sfumature di carattere spirituale. Si ha oggi assoluta esigenza di un’idea di pace che sia in grado di ospitare il desiderio di vincere il dolore e la perdita, di confrontarsi con la transitorietà, di sconfiggere la guerra tremenda del non capire il perché della sofferenza, del male e della morte. Se il credente cerca la pace con ansia, come con ansia cerca la salvezza, potrà trovare un’autentica quiete solo quando comprende, nel profondo della sua coscienza, che tali dimensioni non sono pure utopie, ma verità, ossia quando ne fa esperienza simbolica. Si potrebbe anche affermare che nessuno può capire cosa significhino veramente la salvezza e la pace, senza poter recuperare in sé almeno un frammento di tali esperienze. Ma si potrebbe ugualmente affermare che, forse, non si può comprendere la salvezza pacificatrice se non ci si è mai sentiti perduti, sconfitti, annullati, ridotti a cose, ossia se non si è conosciuto il lato più oscuro dell’esistenza, quello che ci piega sulle ginocchia con la forza del dolore, dello smarrimento, dell’ansia. Solo se si è caduti nel baratro, forse, si avverte come urgente la necessità di ricercare una via d’uscita per sé, per gli altri, ma anche per il mondo nel suo complesso, che conduca a “cieli e terre nuove”, per usare la celebre metafora neotestamentaria. Con la sensibilità di chi conosce il dolore, il credente può mettersi alla ricerca di un varco, di un passaggio che conduca fuori e, insieme, dentro di sé, e infine giungere ad intuire nella densità del silenzio il non dicibile della pace, vivendo il proprium dell’esperienza religiosa che risiede nell’incontro con Dio.
PACE COME SPERANZA
Scoperto questo spazio interiore, il credente non può più gettare sul mondo uno sguardo distratto o annoiato o, peggio ancora, offuscato da un plumbeo pessimismo, ma si anima di speranza perché riesce a vedere la realtà da una prospettiva diversa. Il suo sguardo rinnovato, allora, sarà capace di superare le barriere divisorie delle culture religiose e sarà in grado di guardare l’umano che si riflette in ogni persona. In questo senso, dunque, la pace diviene sinonimo di libertà interiore, quella che il credente acquisisce quando si rende conto che non esiste solo il mondo delle res, il mondo delle cose in perenne contrasto fra loro, ma vi è anche un “altrove”, in cui, parafrasando il profeta Isaia, davvero il lupo e l’agnello potranno vivere insieme. Da un punto di vista spirituale, dunque, la pace è l’esigenza di una libertà profonda e indescrivibile, che coincide con uno sconfinamento da sé libero da ogni parziale ri-confinamento storico, ossia con un non sentirsi soli o prigionieri del proprio ego. Diviene, quindi, il trionfo del simbolico, o, in altre parole, del poetico puro, come essenza di incantamento, di contemplazione, di significato, che sbriciolino la forza classificatoria delle parole. La pace di cui parlano le religioni è, dunque, l’essenza stessa dell’esperienza religiosa, quella che conduce il credente all’incontro oltre ogni conflitto, quella che consente di non arrendersi mai alla causticità del vivere, né all’ineluttabilità del male. E proprio di questa pace, più che mai, le religioni dovrebbero farsi interpreti.