Le origini della Pcc: le «Signorine…»

Foto storica della Pro civitate christiana

Si legga la frase seguente arrotando le consonanti: “… giovanotti e signorine… Un bel gruppo, una schiera…”. O meglio ancora la si ascolti sulle pagine social e internet di Rocca dalla viva voce di don Giovanni Rossi, perché il fraseggio ed il lessico sono tipicamente suoi: si ritrovano in un’intervista filmata degli anni Sessanta e nel loro flusso narrativo specchiano e documentano concetti e termini della prima metà del Novecento.

Per la pronuncia si potrebbe immaginare una radice nel suo esser nato in terra di Francia, a Parigi, in rue Saint Maur – era migrante per lavoro la sua famiglia – ma in realtà non è così: il rientro in Lombardia di mamma Domenica e dei due bimbi è di poco successiva alla nascita di ‘Giovannino’ e alla morte improvvisa, appena un mese dopo, di papà Giovanni. É il 1887.

Quei termini, invece, quasi militareschi, il “gruppo compatto” e più ancora la “schiera” sanno e dicono l’orizzonte di militanza sociale d’un cattolicesimo ancora sospeso tra l’opposizione alle istituzioni d’inizio secolo e i momenti di ‘onnipotenza’ politica del secondo dopoguerra.

Altrimenti suonano, più in chiave estetica, il “giovanotti” e soprattutto quel “signorine” che va evocando ‘un che’ di gozzaniano: quella è d’altronde l’epoca e traccia una filigrana che può persino suonar galante; è del Gozzano il fraseggio poetico: “Io sono innamorato di tutte le signore / che mangiano le paste nelle confetterie. / Signore e signorine…”. Appunto.

Ma – ed è un ‘ma’ di molto peso – le evocazioni di quelle sfaccettature del passato cedono presto il passo, nella medesima registrazione, alla visione ed alla visionarietà profetica di questo strano prete, ambrosiano un po’ per caso – ovvero per scorrimenti, suo malgrado, nei Seminari, a causa delle turbolenze antimoderniste – individuato dal cardinal Ferrari già al momento dell’ordinazione per farne uno dei suoi segretari e subito orientato dal medesimo alla scuola di Angelo Giuseppe Roncalli, pro tempore segretario del cardinale Giacomo Radini Tedeschi: un vescovo dirottato – un po’ in esilio – da Roma alla diocesi di Bergamo: “Guardi don Angelo”, “Senta don Angelo” sono le indicazioni (secondo testimonianze remote) dell’arcivescovo milanese al giovane neo/segretario.

La profezia, lo sguardo profetico ha, insomma, sempre radici storiche. E quella di don Giovanni annuncia, già nell’Italia scombussolata degli anni Venti, la necessità, possibile, di un annuncio cristiano proclamato dai laici: da quei giovani; da giovanotti e signorine che nella distinzione linguistica e di concetto suona – è vero – da fine-Ottocento ma che nell’orizzonte della visione è già al Concilio Vaticano II… e oltre. E sino all’oggi.

I laici-annunciatori, figura che già è uno strappo nel contesto in cui viene enunciato, vede e prevede come normalità le laiche-annunciatrici: senza gerarchie legate al genere, su un piano di parità reale e solo con qualche scricchiolio nelle relazioni di gruppo. Esemplificando: non c’è in Assisi, nella Pro civitate christiana, il “Giardino delle vergini” riservato, come nella Cattolica di padre Gemelli, alle sole giovinette e però c’è una modalità di indicare i Volontari col titolo accademico esplicito (il dottor…) e le Volontarie, che non sono meno titolate di loro, come ‘la signorina…’.

E il ‘lei’ tra generi diversi è comunque indotto.

La storia attraversa le contraddizioni. E la profezia, in quanto annunciata nella storia, anche con queste si misura.

Ma – ed è un secondo, importante ‘ma’ – quelle signorine sono da subito e via via sempre più, colonne e autentiche pietre d’angolo della vita e dell’attività della Pcc. È un dato. Emerge visivamente dalle immagini fotografiche e cinematografiche degli anni Cinquanta/Sessanta e, prima ancora, dalla Promessa d’origine: il 1° gennaio del 1940, sulla tomba di Francesco e nelle mani accoglienti del vescovo Nicolini, la scelta di appartenere alla Pro civitate christiana viene pronunciata da due sacer­doti, cinque giovanotti e tredici signorine.

Responsabili di settori e di ambiti di iniziativa, componenti di organismi di governo della Cittadella, più volte, in itinere, nel ruolo di presidente, quelle ‘signorine’ e quante come loro si sono aggregate nel corso dei decenni, hanno inverato la profezia d’origine di questa utopia cristiana portandone al calor bianco l’intuizione d’origine.

Le parole della Lettera a don Giovanni che si riportano, a seguire, in queste colonne di Rocca,

scritta da Gianna Galiano, cogliendo l’occasione di un compleanno del fondatore e leader massimo della Pcc, pur dopo la sua morte, dicono di vicinanze, di un clima generale – anche di franchezza – di responsabilità e di scelte condivise.

Questa di Gianna è una voce sola e il testo è stato individuato e preso dall’archivio per essere collocato nel libro-intervista Presa da questo sogno, di prossima pubblicazione con Cittadella Editrice, in cui Gianna dice di sé e della Pcc, di don Giovanni, della Cittadella e di quei ‘giovanotti e signorine’. Certamente queste parole ed anche tutto quel libro vengono da un racconto, da una memoria e da una storia personale; ma è pur vero che in una esperienza che è stata ed è comunitaria, la voce di una ‘signorina’ vale molte voci e un volto, nella sua unicità, ne specchia l’insieme.

LETTERA A DON GIOVANNI ROSSI GIANNA GALIANO

Caro don Giovanni,

se Lei fosse ancora con noi, avrebbe certamente il computer nel suo studio e sorriderebbe compiaciuto a quanti si affacciassero a salutarla.

Dico questo perché la prima impressione che si è sedimentata dentro di me, appena ebbi la fortuna di conoscerLa, è stata quella di avere di fronte una persona che pulsava con la vita e che camminava con la storia al ritmo di un canto giovane.

Ma forse più di ogni altra cosa, mi parve di cogliere nel Suo sguardo a tutto campo, nel sorriso interrogante e accogliente, nel gesto ampio che spalancava finestre su orizzonti inesplorati, la presenza di una passione che Le ribolliva dentro allegramente, come il vino nuovo della mia Puglia.

A mano a mano che le stagioni trascorrevano da quella solare mattina del 22 agosto 1961, data fatidica della mia scelta (allora si diceva solo “vocazione”), mi rendevo conto che la Sua passione aveva un nome, Gesù Cristo. A Lui era legato ogni Suo progetto, sia quello di formare un gruppo di giovani laici, pronti ad annunciarlo, sia quello di convocare nella terra benedetta e profetica di Francesco, nella Cittadella, come in una moderna Abbazia, folle di credenti e di lontani (ora li chiamiamo “diversamente credenti”), avendo un unico desiderio e una forte speranza: interessare e coinvolgere tutti nella scoperta o nella riscoperta del Dio fatto Uomo, la Buona Notizia in grado di spezzare il cerchio della solitudine e dell’angoscia dell’uomo (quell’angoscia alla quale Lei diceva, evangelicamente, di non voler credere…).

Nei “pellegrini” e negli inquieti ricercatori che affollavano i Convegni, la forza della speranza gioiosa che traspariva dal Suo volto e dalla Sua parola, faceva sì che si verificasse quanto si diceva dei visitatori degli antichi santuari dei quali, appunto, quando ripartivano, si diceva che “più non erano gli stessi”! Erano i tempi degli approdi straordinari di personaggi che Lei riceveva con la massima naturalezza (storico quello ormai noto di Pier Paolo Pasolini e di tanti altri che hanno lasciato tracce significative nella cultura, nella società e nella Chiesa del nostro Paese).

La caratteristica della Sua comunicazione mi colpiva molto perché coglieva nel segno e risultava densa di contenuti anche quando sembrava procedere per slogan e per parole d’ordine, come si dirà dei sessantottini. Su di me, invece, avevano un effetto stimolante, tanto che, a volte, di fronte ai nuovi impegni e alle inevitabili difficoltà della vita comunitaria, mi sorprendevo a ripetere, a mo’ di “mantra” (allora si diceva ‘giaculatoria’), “L’importante è voltare pagina”, “Il mondo è di chi lo vuole”, “La testa fuori, non chiusi nel bozzolo, ma fuori, fuori!”, “Lasciarsi mangiare dagli altri come il pane”, “Oggi comincio”, “Ognuno è portatore di un messaggio” … “non diventate vecchi mai!”.

Infatti i Suoi slogan, a differenza di quanto si verificava nelle banalità del pensiero confezionato, magari per motivi commerciali pubblicitari, erano il punto di arrivo di un percorso di vita, di un travaglio vissuto e trasformato in un insegnamento di saggezza da condividere.

A mano a mano che si approfondiva la mia esperienza di Volontaria, mi resi conto che Lei, caro don Giovanni, aveva quel tipo di personalità e di formazione interiore, che trovavano il punto d’Archimede, in quella “reductio ad unum” di cui ci avevano parlato i docenti della scuola di teologia, grazie alla quale, da qualunque punto o a qualunque materia fosse rivolta la Sua attenzione, sapeva sempre riportarla all’unico vero centro di interesse, una specie di chiodo di fuoco imprescindibile.

E, come già Le ho detto, si trattava, sempre e comunque, di Gesù Cristo.

In questo Lei, oltre che al Vangelo, si ispirava molto a San Paolo, il Santo con il quale ha avuto, come diremmo oggi, una forte “empatia”.

Ora che sono volati tanti anni da quando Lei ebbe la conferma delle Sue intuizioni e del Suo “carisma”, varcando, letteralmente, la soglia del Concilio Vaticano II, accolto dal grande amico, Papa Giovanni XXIII (che, come segno di stima, Le aveva confidato il progetto del grande evento), mi rendo conto che pur nelle vicende molto travagliate, ma anche tanto ricche di fermenti creativi, in senso apostolico, nel post-concilio, il gruppo dei Suoi Volontari, ciascuno a suo modo, quasi sicuramente è rimasto fedele alla Sua utopia.

Dall’altra riva, caro Don Giovanni, vede più in profondità le nostre miserie, i limiti, ma forse anche quella luce che ancora può fare risplendere il Suo e il nostro sogno, ancora oggi, qui e ora con Lui.

(Gianna, da Lei ribattezzata, “sette Spiriti”)

PS. Questa lettera ho cominciata a scriverla il 19 febbraio, giorno del Suo compleanno.