lavoro svalutato, fabbriche svuotate

Vignetta "dai poveri ai ricchi"

Torna in mente una folgorante vignetta di Altan dei primi anni Duemila. Quella dove l’operaio Cipputi, reduce disincantato delle grandi battaglie degli anni Settanta, annuncia a un compagno di lavoro che “la lotta di classe è finita”, e l’altro ribatte fulmineo “bisogna dirglielo ai padroni che invece continuano come niente fosse”. Perché i bassi salari italiani, più bassi che in Francia, Germania, Olanda e altri Paesi europei, si spiegano anche con una lunga stagione di intenzionale e determinata svalorizzazione del lavoro. Non abbastanza contrastata, fin dalla seconda metà degli Ottanta, da un conflitto sociale all’altezza dei problemi, e alimentata anzi in mille modi dalla politica, non solo quella dichiaratamente neo-liberista. È successo anche nell’industria dove il lavoro è tradizionalmente assai meglio regolamentato dai contratti collettivi rispetto a comparti come i servizi, l’agricoltura, il turismo in cui frammentazione, precarizzazione, esternalizzazioni, subappalti e caporalati di vecchia e nuova concezione deprimono, fino ad impedirla o distorcerla, la rappresentanza e la negoziazione sindacale. Anche quando le cose vanno a gonfie vele, anche quando i profitti sono alti e le esportazioni tirano. Figuriamoci dove e quando le cose vanno peggio.

CIPPUTI E LA LOTTA DI CLASSE

Ha mille ragioni il compagno di Cipputi. La “lotta di classe”, pur scomparsa dagli orizzonti della politica, c’è ancora. Ma a farla sono state e sono le imprese che intendono fronteggiare una competizione sempre più ardua comprimendo il costo del lavoro invece che investendo in ‘ricerca e sviluppo’, innovazione tecnologica e organizzativa, evoluzione delle competenze, il pacchetto indispensabile alla competitività. Il costo del lavoro, si sa, è fatto di salari, e anche di orari, sicurezza sul lavoro, formazione e qualificazione, diritti sociali e individuali. Ma quello che negli ultimi decenni è stato portato a casa dalla contrattazione nazionale e, dove c’è, da quella aziendale, solo raramente ha inciso in modo significativo sulle paghe di operai comuni e specializzati, con molto del poco che si è ottenuto sbriciolato e reso diseguale da benefit aziendali o premi di produttività non fissi e non pensionabili. L’impoverimento economico e sociale di chi col suo lavoro fa girare la parte forte e strutturale dell’economia del Paese, lo storico e autentico made in Italy, è sotto gli occhi di tutti, e con esso l’esplodere di enormi diseguaglianze. Ma un sano conflitto in nome del valore e della dignità del lavoro, è mancato per troppo tempo. Forse è di questo che parla Maurizio Landini quando invoca quella ‘rivolta sociale’ che è stata tanto criticata, e addirittura demonizzata come fosse un appello alla lotta armata. Inquietanti non sono le sue parole ma che non si trovi il bandolo per imprimere una svolta.   

IL TRAVASO DI RICCHEZZA DAL LAVORO AL CAPITALE

Per capire come stanno davvero le cose, e quali ne siano le cause, basta un’occhiata ai dati, alle documentazioni, alle tante analisi non di parte. “Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale negli ultimi anni è stato pazzesco. Soci e azionisti hanno prelevato dividendi pari all’80% degli utili netti, solo il 20% è stato lasciato all’autofinanziamento, e di questa quota minoritaria solo il 40% è stato investito nelle fabbriche, il resto è andato in operazioni di finanziarizzazione”.  A denunciare lo scandaloso squilibrio non è il segretario generale della Cgil. E neppure Michele De Palma, il leader del sindacato dei metalmeccanici. Queste parole, comparse il 22 ottobre sul Sole24ore, il quotidiano di Confindustria, sono del professor Riccardo Gallo che illustra i risultati di una ricerca su ‘Dinamiche dei redditi e squilibri nell’industria italiana’ svolta dalla Facoltà di ingegneria della Sapienza. Sempre in ottobre è l’Ufficio studi di Mediobanca nel suo Rapporto annuale sull’andamento dell’industria a dare conto di una stagione di profitti straordinari. “Nel 2023 margini record per le imprese italiane, il miglior risultato dal 2008, in testa per fatturato il comparto delle costruzioni ‘drogato’ dal superbonus introdotto dal governo Conte, ma profitti record ci sono stati, trainati anche dal Covid, in altri settori, la farmaceutica, la logistica, il comparto della consegna a domicilio delle merci”. E tuttavia da allora ad oggi le condizioni retributive dei lavoratori non sono affatto migliorate. La contrattazione, sempre ritardata dai datori di lavoro rispetto alle scadenze contrattuali, arranca, realizza e fa prevedere risultati insufficienti. A fine settembre è stato l’Istat a segnalare che per il 52,5% dei lavoratori dell’industria, cioè una platea di oltre 7 milioni, non sono stati ancora rinnovati contratti scaduti in qualche caso da più di un anno, mentre mesi e mesi di inflazione hanno eroso il potere d’acquisto di salari già insufficienti. A dicembre, dopo nove mesi di incontri inconcludenti, le associazioni di impresa del comparto metalmeccanico (1 milione e 600mila addetti, 500 miliardi di fatturato pari a più di un quarto del Pil, 220 miliardi di esportazioni, l’asse strategico dell’industria nazionale), continuano a rifiutare di prendere in considerazione la piattaforma sindacale unitaria, che chiede un aumento mensile di 280 euro lordi medio pro capite, ovviamente modulato lungo l’intera vigenza contrattuale e articolato secondo i profili professionali. A novembre c’è stata la provocazione di una propria piattaforma fatta di modesti incrementi di mera compensazione ex post delle perdite prodotte dall’andamento inflattivo. Giustificata coi segnali di crisi della seconda metà 2024 in tutti i settori più importanti, dal metallurgico agli autoveicoli e ai computer, Tv, apparecchiature medicali.

I CENTO MILIONI DEL CEO DI STELLANTIS

È intanto diventata evidente la rovinosa incapacità di investimenti in innovazione tecnologica di un’industria italiana ed europea dell’auto surclassata dai successi di mercato dell’auto elettrica costruita in Cina, con tutto quello che ne deriva in termini di caduta della domanda, sia di esportazione che interna: perché salari troppo bassi portano con sé anche immancabili riduzioni dei consumi interni. Ma il Ceo di Stellantis, l’ex Fiat che annuncia riduzioni della produzione, chiusure di stabilimenti e una nuova ondata di cassa integrazione, pur costretto a dimissioni anticipate per palese incapacità di far bene il suo mestiere, se ne va comunque con 100 milioni di buonuscita (il suo stipendio ordinario ne valeva 40 annuali) mentre per tutti gli azionisti ci sono stati, crisi o non crisi, dividendi di tutto rispetto. E la Borsa non reagisce affatto male. Non è solo la globalizzazione il problema, come sostengono sovranismi grandi e piccoli, autentici o di importazione, è piuttosto un’economia più attenta alla remunerazione del capitale che alla produzione. Sotto il vestito della priorità assoluta dei dividendi d’oro agli azionisti c’è l’assenza di nuove strategie industriali, sia private che della mano pubblica. E l’indifferenza, anche politica, al crescere impetuoso di devastanti diseguaglianze.

SALARI PIÙ ALTI PER I GIOVANI

Non si discute abbastanza in Italia di tutti gli effetti negativi di politiche salariali tanto avare. Compreso il crollo di attrattività del lavoro in fabbrica che questa situazione ha prodotto nei giovani. Il mondo delle imprese non fa che piagnucolare per le sempre più scarse candidature alle assunzioni da parte delle generazioni sotto i quarant’anni. E in questo quadro, condizionato anche dal calo demografico (abbiamo perso in dieci anni 2 milioni di forze di lavoro), della scarsissima reperibilità di operai e tecnici dotati delle giuste competenze. Il problema, che è reale e che sta condannando all’estinzione anche molte preziose attività artigianali, riguarda tutta l’industria, a partire da quella delle costruzioni dove, in gran parte dell’Italia, non si trovano da assumere se non manovali largamente inesperti provenienti dalle file dell’immigrazione straniera. Ma riguarda anche il comparto della logistica, dove mancano migliaia di autisti, e l’intero tessuto industriale, dal tessile all’alimentare, dalle costruzioni navali alla meccanica fine. Colpisce, fra l’altro, che anche nelle aziende ad alto utilizzo di tecnologie avanzate – è il caso, nel comparto metalmeccanico, della meccatronica – manchino non solo gli specializzati in informatica, elettronica, robotica, ma anche le competenze meccaniche di base di figure essenziali come i saldatori. Ci sono, certo, gli effetti della scolarizzazione lunga in cui si maturano per lo più aspettative di attività professionali di tipo non manuale o tecnico-operativo. E anche le conseguenze di una narrazione sociale – e scolastica – sul lavoro, e su quello industriale in specifico, che non gli dà il giusto valore. Ma è indubbio il peso di salari di base troppo bassi a fronte di 38-40 ore settimanali, di lavorazioni su più turni, dei rischi molto concreti di incidenti e di malattie professionali. Ci sono anche giovani operai specializzati tra i “cervelli in fuga” che lasciano l’Italia per lavorare in altri Paesi europei. Una svolta sui salari, non fosse che per questo, è all’ordine del giorno.