La morte non è la fine

Il confronto tra di noi e dentro di noi sulla morte è oggetto di meditazione quotidiana. Di fronte alla scomparsa inaspettata o tragica di una persona cara, di un parente, di un amico, davanti a quel dolore che parla silenzioso in noi attraverso le lacrime e lo smarrimento, ci è naturale aprirci a interrogativi su quello che ci attende alla fine della vita. Ci domandiamo se con l’ultimo battito del cuore tutto finirà per sempre o se qualcosa di noi e dei nostri cari sopravvivrà, e in che forma.

La risposta, è inevitabile, dipende dal percorso di vita che abbiamo avuto, dalla formazione culturale che abbiamo ricevuto, dalle argomentazioni filosofiche che più ci hanno persuaso, dalle credenze che alimentano, se c’è, la nostra fede.

Quando i giorni che restano sono segnati dalla sofferenza

Ma quell’interrogarsi assume una urgenza molto più drammatica in chi si trovi a confrontarsi con l’imminenza sicura della propria morte o con la consapevolezza che la parentesi di giorni che ancora gli restano da vivere sarà segnata da una sofferenza cui gli strumenti della medicina non recheranno balsamo. A cosa può aggrapparsi chi attraversa quei territori estremi?

Da tempo ho esposto in diverse occasioni pubbliche le mie riflessioni sul tema del fine vita, nel desiderio di alimentare un confronto che possa essere utile a me e agli altri. E per quel che riguarda la possibilità di porre volontariamente termine alla vita, non nascondo che la mia posizione, come cittadino e come cristiano, non è in sintonia con la posizione “ufficiale” della Chiesa cattolica, pur riconoscendomi in toto nel messaggio di Gesù di Nazareth.

Dimensione biologica e relazionale dell’esistenza

Ispirandomi al messaggio cristiano, distinguo nell’esistenza umana una dimensione biologica e una relazionale. Nella prima riconosco il fondamento materiale necessario per poter attuare il senso più profondo della vita stessa, che non dimora nella carne o nella biologia ma nella relazione: cioè in quella dimensione immateriale, ma non meno reale e viva, che ci fa sentire parte di un’unica sostanza solidale con il nostro prossimo e col mondo, e che si esercita in quella dimensione erotica, amicale, di comunione cui i padri greci alludevano con la triade eros, filìa e agàpe, sfumature diverse di un unico concetto che la nostra lingua racchiude nella parola “amore”.

La vita è infinitamente più che il corpo: è relazione, vicinanza, solidarietà. È facoltà di agire insieme agli altri e per gli altri, è libertà di credere, di agire, progettare. E quando la coscienza non è più libera di sperimentare e vivere la relazionalità ma si ritrova chiusa entro la gabbia di un corpo ridotto a macchina di sofferenza, è ancora nella relazione che posso decidere di porre termine alla mia vita. Non sembri paradossale, ma non è in una dolente solitudine che posso risolvere di interrompere la mia vita, bensì, ancora, nella dimensione relazionale, nel confronto dialettico con chi mi è caro. E quel confronto presuppone la nostra libertà.

Libertà di scegliere sulla propria fine

Chi decide di interrompere la propria vita perché diventata fardello insopportabile, agisce nella convinzione della propria incoercibile autonomia morale, della propria libertà di scelta: “Sono libero fino alla fine.” Condividere coi propri cari quella scelta non limita dunque la nostra autonomia morale, di cui restiamo pienamente e individualmente padroni e responsabili: la esercita, facendone partecipi gli altri. Se poi, come nel mio caso, c’è fede in una vita che continua oltre l’estremo battito del cuore, perché dovrei negare eticamente la facoltà di contribuire alla conclusione dell’esistenza terrena, agevolando il passaggio a quell’altra dimensione, sconosciuta ma reale, in cui Dio tergerà ogni lacrima dai nostri occhi «e non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno…”? (Apocalisse 21,4).

Ai cristiani che praticano celebrazioni religiose, ai tanti che presenziano a cerimonie funebri, ricordo quanto è detto nel Prefazio: “La vita non è tolta, ma trasformata”. E chi più di noi cristiani – credenti, non semplicemente praticanti – sa che la morte fisica non è la fine di tutto ma un passaggio?

A finire è solo la vita terrena

Noi preti dovremmo testimoniare questa fiducia senza paura della morte, che non è la fine di tutto. La nostra forza è credere in un Dio che ci ha fatto dono della vita alla nascita e non ce la toglierà per l’eternità: nemmeno quando siamo noi a chiedere per scelta volontaria e libera che ci sia sottratta quella terrena col gesto dell’eutanasia attiva.

Educhiamo dunque a sostenere Sorella morte, come amorevolmente la chiamava Francesco d’Assisi: momentum a quo pendet aeternitas e non castigo. Perché la morte è la pienezza dell’amore, dies natalis, giorno della nascita a una diversa vita, senza più dolore.

Ettore Cannavera, laureato in scienze sociali, psicologia e pedagogia, è fondatore della comunità “La Collina”  che ospita minori detenuti per reati gravi ammessi a pene alternative. Professore di filosofia e psicologia oggi vive lì, nell’azienda agricola tra le colline di Serdian. Don Ettore è stato nominato Commendatore dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha premiato così il modello della Collina.