L'intervista
La morte annunciata di una sinistra senza storia
Conversazione con Mario Tronti
Non solo in Italia, ma in generale nel mondo occidentale, oggi la sinistra sembra in crisi di identità, di rappresentanza, di credibilità. Ci si potrebbe chiedere: ha ancora senso una sinistra nel ventunesimo secolo? Ne parliamo con Mario Tronti, grande saggio del marxismo operaista, ex senatore della Repubblica e già parlamentare del Pd.
Professore, esiste ancora la sinistra?
La sua è una domanda difficile. La sinistra esiste ancora formalmente, ma ormai si è scavato un solco fra questa esistenza formale e la vita sociale e politica. Tale distanza può essere più o meno marcata a seconda del Paese. Negli Stati Uniti la sinistra, senza mai definirsi come tale, si è sempre identificata nel partito democratico, e comunque ha esercitato una certa forza attrattiva nei confronti della sinistra europea. In Europa, la socialdemocrazia tedesca possiede ancora sia la solidità organizzativa, sia la capacità di esercitare una presenza reale nel sistema politico. In Francia la sinistra si è ripresentata in forme nuove, in Spagna c’è un partito socialista al governo. Esiste pure un partito socialista europeo, che a me sembra un morto che cammina. In generale, è pur vero che il panorama è un po’ desolante, ma ci sono anche delle eccezioni in controtendenza, come il partito socialista portoghese, che sta portando qualche segnale di freschezza.
E in Italia che succede?
Succede che il Pd voleva somigliare ai democratici americani, e pur nella sua breve vita ha finito con il non riuscire più a rappresentare la sinistra italiana. Poi esiste una galassia di sinistre minoritarie che non riescono a incidere nella vita reale. Una situazione molto frastagliata, poco leggibile. Il problema è che bisognerebbe ridefinire ciò che si intende per sinistra.
Qual è l’aspetto dirimente per poter definire la sinistra?
Da vecchio militante del Pci, ho sempre creduto in un progetto chiaro, definito, organico. In un partito che non aveva bisogno di definirsi: il nome parlava chiaro, senza fraintendimenti circa la sua collocazione politica. La sua stessa evoluzione in Pds, poi Ds e infine Pd, non ha mai esercitato la forza attrattiva, vorrei quasi dire evocativa, che quel nome storico possedeva. Il cammino affrettato, e per certi aspetti raffazzonato, da Pci a Pd ha molto disorientato l’elettorato, che non ha più compreso di che si trattava. Perciò vengo alla sua domanda: la sinistra per me è qualcosa che deve avere un passato, un percorso storico, un radicamento sociale. Il movimento operaio non è più riproponibile, nelle forme storiche in cui si è manifestato, perché oggi l’industria tradizionale non è più centrale nel capitalismo. Però l’errore è stato pensare che la storia del movimento operaio si fosse conclusa con la disintegrazione, dopo settant’anni, del tentativo di costruzione del socialismo cosiddetto reale. Un esperimento fallito che però non portava alla fine della storia. Il movimento operaio ha una storia molto più lunga, nata a fine Settecento con la prima rivoluzione industriale e proseguita per i due secoli successivi attraverso tante esperienze di mutualismo, associazionismo e di lotta organizzata, e non doveva essere liquidato così grossolanamente. Tanto più che il movimento operaio si è espresso e sviluppato in profondità anche nel mondo cattolico. Ecco, se la sinistra, pur mutando le forme, non si porta dietro questa lunga storia, fatta di cura e assistenza quotidiana alle persone che lavorano, di lotta antagonista, di alternativa all’ordine costituito, allora non ha più senso definirla tale. E invece, dagli anni ‘80 in poi, sembra che l’unica preoccupazione dei vertici della sinistra sia stata quella di demonizzare il passato, di emanciparsene, di aprirsi al nuovo che avanza. Ma non si sono accorti che il nuovo che avanza è sempre lo stesso: la ragione capitalistica, che oggi si chiama neoliberismo.
Quindi, l’errore è stato buttare il bambino con l’acqua sporca…
(Ride). Sì, è andata proprio così. Si potrebbe anche dire che, nell’ansia di legittimarsi, hanno tagliato il ramo su cui erano seduti. Dimenticando per sempre la propria storia e il fatto che la grande rivoluzione del 1917 aveva ben altre premesse di quelle poi costruite dallo Stato sovietico, che le ha in buona parte deluse e contraddette. E hanno anche dimenticato che il conflitto, la critica allo stato delle cose, di cui oggi hanno paura, è sempre stato l’anima del movimento operaio.
Nell’Italia oggi governata dal centrodestra, quale realistico obiettivo possono porsi le forze di centrosinistra in campo, così diverse fra loro, per progettare un’alternativa credibile?
Porrei l’attenzione su un fatto: per la prima volta al governo dell’Italia non c’è il centrodestra, ma la destra tout court. Si è esaurito il ruolo di garanzia che ha avuto per decenni il centro, prima espresso dalla Dc e poi in parte dal berlusconismo. Di conseguenza, sarebbe logico aspettarsi che a contrapporsi a una vera destra ci sia una sinistra altrettanto vera. Non c’è più bisogno del centrosinistra. Ecco perché falliscono tutti i tentativi di coagulare un centro, il famoso “terzo polo”, che non ha più un senso politico. La situazione si è radicalizzata (guardiamo cosa sta succedendo negli Stati Uniti e nella stessa Francia) e richiede svolte radicali, non pateracchi e soluzioni nebulose. Se da sinistra non si coglie questo passaggio, non si può proporre un’alternativa strutturata e attendibile.
Si può dire che la sinistra ha rinunciato a portare avanti le sue istanze “tradizionali”, lasciando così campo libero al populismo emotivo della destra, che ha così tanta presa nelle grandi periferie?
Più che populismo, lo definirei sentimento antipolitico. È lo stesso che ha sciaguratamente cavalcato il movimento Cinque Stelle, che con il suo “uno vale uno” ha diffuso demagogia, approssimazione, incompetenza e superficialità. Tutte cose che non devono appartenere a una sinistra seria, che al contrario, per sua natura, dovrebbe perseguire una conflittualità sociale riconoscibile e affidarsi alla sua vocazione di responsabilità sociale e capacità di analisi. Non a caso Conte si guarda bene dal dichiararsi di sinistra e parla sempre d’altro, di un concetto generico di “popolo”. Il M5S si è sempre definito “né di destra né di sinistra”. Secondo me, chi si definisce così è sempre di destra… Mi ricorda tanto il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini.
Ma il Pd è diventato veramente il partito delle Ztl?
Quando scrissi Il popolo perduto, uscito all’indomani del grande exploit elettorale del M5S nel 2018, sottolineai come il Pd avesse perso l’elettorato della sinistra, essendo un partito composto da persone mediamente benestanti, ma anche mediamente benpensanti, che ambiscono a una vita tranquilla e tutelata. Poco a che vedere con gli abitanti delle grandi periferie metropolitane, delle città medio-piccole e delle campagne, che infatti hanno cominciato a votare a destra. Il popolo del Pci, così come quello della Dc, era un popolo politico; con la disgregazione di questi due grandi partiti, anche il popolo si è disorientato. Dunque, non solo il Pd ha perso il suo popolo, ma il popolo stesso si è perduto: ora che è diventato “antipolitico”, è costituito da una moltitudine di individui dominati da umori e impressioni fugaci, poco interessati alla consapevolezza e all’approfondimento e caratterizzati da un’aperta ostilità verso il ceto politico, giudicato come depositario del potere. Ma in realtà il potere vero è nelle mani di chi lo produce e lo controlla, vale a dire dei grandi attori del sistema economico-finanziario, che possono agire indisturbati perché nessuno, tantomeno chi cavalca sentimenti demagogici, li mette in discussione. Il fatto è che bisognerebbe ri-politicizzare il popolo, e lo potrebbe fare solo una sinistra propriamente detta.
Sui social l’emotività ha soppiantato l’autorevolezza e la credibilità dei contenuti. I messaggi politici si riducono a dichiarazioni ad effetto, prive di sostanza eppure efficaci nel colpire il bersaglio. Il medium è il messaggio, diceva McLuhan. Perché la destra (un esempio per tutti: l’ex presidente Trump) sembra più a suo agio nel maneggiare i nuovi media?
È l’effetto della cosiddetta dittatura della comunicazione, in base alla quale non è tanto importante cosa comunico, ma come lo faccio. Il concetto di demagogia è profondamente di destra, per questo alla destra riesce molto bene produrre una grande mole di messaggi adatti ai social. Ma non è una novità, cambia solo lo scenario: anche negli anni Trenta la propaganda fascista e nazista si serviva massicciamente del medium più diffuso e innovativo dell’epoca, la radio. Un recente articolo del sociologo Giuseppe De Rita ragionava sul fatto che le persone siano sempre più orientate dall’opinione più che dalla coscienza o dal senso di appartenenza a un campo, a uno schieramento. Impera l’emotività, l’attrazione per la novità: in campo elettorale, è successo con Berlusconi, e poi con altre meteore del firmamento politico, come Grillo, Salvini, Renzi, gente che ha fatto dello spettacolo della novità la sua vera cifra politica. Gli elettori sono governati da innamoramenti sempre più fugaci, totalmente scissi dalla profondità e della credibilità del messaggio. Anche la Meloni sta godendo di questo stesso sentimento, fondato sull’equivoco del “nuovo”. E pure la Schlein, se ci pensiamo, è salita alla ribalta grazie alla fascinazione per il cambiamento. Diamole un po’ di tempo, prima di giudicarla. Sta di fatto che l’opinione pubblica oggi non è più orientata dai partiti, dalle ideologie, da sentimenti forti di analisi della realtà, ma vive di impressioni fugaci, di brevi suggestioni, di equivoci, di battibecchi sui talk show.
È vero, la politica sembra incapace di progettualità, di visione. Funzionano meglio gli slogan, le semplificazioni, le suggestioni, e si agisce sulla pancia delle persone più che sul loro raziocinio. Su questo terreno, la sinistra arranca, sembra sempre al traino di modelli che forse non le appartengono, eppure fanno presa sulle classi più disagiate, sugli emarginati, sui sobborghi. Perché la sinistra non è più capace di parlare alla “gente”?
Temo che il problema non sia il non saper usare bene i social o i nuovi media, ma piuttosto l’aver poco da dire. Mi sembra che, non solo a sinistra ovviamente, manchino passione, cultura, competenza… Non c’è più pensiero politico, è questa la cosa grave.
L’astensione dalle urne sembra una deriva comune a tutte le società capitalistiche. Che tipo di segnale rappresenta questa diffusa disaffezione al voto democratico?
Mi viene in mente il discorso di Bobbio sulle promesse non mantenute dalle democrazie: la più importante è quella della partecipazione delle persone alla gestione del potere. Le democrazie di oggi non lo permettono, perché non fanno che produrre élite, che a loro volta si riproducono per partenogenesi. Questo porta a una disaffezione alla politica, accentuata dalla deflagrazione dell’umore antipolitico fomentata da certi movimenti. Ecco perché nelle democrazie reali (uso questo aggettivo proprio nel senso con cui veniva usato per definire i Paesi del socialismo reale) i governi sono del tutto delegittimati, in quanto eletti da piccole minoranze. L’astensionismo in Italia ha due componenti: una parte qualunquistica, cui non interessa per nulla la cosa pubblica, e una parte politicizzata, soprattutto di sinistra, fatta di masse di elettori che non si riconoscono più in un partito e non trovano più l’offerta politica desiderabile. È qui che la sinistra dovrebbe agire per ritrovare consensi. Ma, come ho detto, per fare questo servono idee e una proposta politica chiara, definita.
Le sembra possibile una convergenza fra marxismo e cristianesimo?
Più che tra marxismo e cristianesimo, io vedrei una convergenza fra comunismo e cristianesimo. Il marxismo tradizionalmente si limita a esprimere la dimensione della conflittualità sociale, della lotta di classe, con un impianto teorico di materialismo storico. All’interno del movimento operaio, oltre alla componente teorica espressa dal marxismo, una volta c’era qualcosa di più, quella che viene definita Weltanschauung, ossia la concezione del mondo, della vita e della posizione in essa dell’essere umano insita nell’idea di comunismo. Il termine socialismo è ormai in desuetudine perché demonizzato dall’esperienza sovietica, ampiamente superata dalla storia, ma forse è più facile stabilire similitudini fra cristianesimo e comunismo, perché quest’ultimo rappresenta un’istanza umana che travalica la modernità e che parte da Platone, passa attraverso i padri del deserto, le grandi eresie, e via così. Ho sempre apprezzato la definizione di comunismo come eresia del cristianesimo e nella vita ho coltivato intensi rapporti con eminenti personalità del mondo cristiano, come Giuseppe Dossetti. Ho imparato che anche il cristianesimo è rivoluzionario, quando parla di uguaglianza, di fraternità, di solidarietà. Principi che non a caso sono al centro dell’idea del comunismo. Perciò questa convergenza esiste eccome, e la chiamerei affinità elettiva. Ricordando che la politica con la P maiuscola è quella che vuole fare dell’essere umano uno spirito libero.
Dopo la caduta del Muro e di tutto il blocco sovietico, gli scenari sono rapidamente cambiati: la nascita di nuove contrapposizioni a livello internazionale, l’importanza strategica delle risorse primarie e delle materie rare, l’emergenza migratoria, l’urgenza della questione ambientale. Quale di questi grandi temi secondo lei sarà decisivo per il futuro della nostra civiltà?
Il tema decisivo sarà quello legato alla geopolitica, che determina anche le questioni ambientali e migratorie. La globalizzazione e la stessa sovranazionalità delle istituzioni europee lasciano ormai poco spazio alle decisioni e alle politiche delle singole nazioni, dei singoli governi. Siamo nel pieno di una rivoluzione epocale, che richiede visioni ampie, planetarie. Gli equilibri mondiali si stanno spostando dall’Atlantico al Pacifico. Emergono nuovi mondi e nuove istanze, che per secoli e fino ai giorni nostri sono stati relegati nell’ombra dall’Occidente, schiacciati da imperialismo e colonialismo: Paesi come la Cina, l’India, il Pakistan, il Brasile, il SudAfrica, che ormai rappresentano la grande maggioranza della popolazione mondiale, rivendicano un ruolo e aspirano a posizioni importanti nello scenario internazionale. La stessa guerra fra Russia e Ucraina è ormai diventata uno scontro fra Oriente e Occidente.
A proposito del conflitto in Ucraina: continuano le distruzioni, l’annientamento brutale di persone e cose; ogni attore in scena – compresa la quasi immobile comunità internazionale – è prigioniero della propria parte, incapace di fare un passo avanti. Come andrà a finire?
Non si vedono spiragli di pace, purtroppo. Sono davvero amareggiato nel vedere questa Europa incapace di esprimere una sua autonoma soggettività. L’Ue poteva essere il perno di una mediazione, di un possibile dialogo fra le parti, e l’infausta occasione del conflitto poteva diventare un motivo di spinta decisivo per la nascita dell’Europa come soggetto politico. Invece la politica di Bruxelles è totalmente subalterna a quella degli Stati Uniti. La Cina mi sembra più propensa al dialogo degli Usa, con tutto che Taiwan rischia di diventare una nuova Ucraina, con le stesse cause scatenanti: la Cina rivendica Taiwan esattamente come la Russia rivendica l’Ucraina come parte del proprio territorio. Ma mentre davanti alle coste taiwanesi, cioè davanti alla Cina, incrociano le portaerei americane, non vedo navi da guerra cinesi davanti alle coste americane. Dunque c’è qualcosa da correggere nella narrazione che ogni giorno ci viene proposta dal grande sistema mediatico.
Esistono chiavi di lettura fuori dal mainstream?
Ce ne sono di autorevoli, anche nel campo liberale. Come quella di Sergio Romano, che si chiede come mai, quando si è dissolto il Patto di Varsavia, non si sia sciolta anche la Nato, un’alleanza difensiva nata esclusivamente per contrapporsi al blocco sovietico. O come quella dello stesso Henry Kissinger, un altro “giovanotto” di cent’anni, che predica prudenza e rispetto nei rapporti con la Cina. Ma le pare possibile che a ragionare siamo rimasti soltanto noi vecchi?
Mario Tronti (Roma, 1931) è considerato uno dei principali teorici ed esponenti del marxismo operaista teorico. Militante del Pci negli anni Cinquanta, è stato tra i fondatori delle riviste Quaderni Rossi, Classe operaia, di cui è stato anche direttore, e Laboratorio politico. Docente per trent’anni presso l’Università di Siena, dove ha insegnato Filosofia morale e Filosofia politica, è stato senatore della Repubblica italiana dal 1992 al 1994 e dal 2013 al 2018. Tra le sue ultime pubblicazioni Il popolo perduto. Per una critica della sinistra (con A. Bianchi, 2019).