La lucerna di Mar Musa

Padre Paolo Dall'Oglio

Forse in Cittadella Laudato si’ non potevamo trovare maniera migliore per poter chiudere l’anno e aprirci al nuovo. La sera di S. Stefano, protomartire, in collaborazione con Articolo 21, è stato proiettato il docufilm di Fabio Segatori, Padre Dall’Oglio, con la partecipazione dello stesso regista, della sorella di padre Paolo Francesca e di Riccardo Cristiano, biografo. Nessun messaggio agiografico o oleografico, piuttosto un’indicazione chiara per il futuro che padre Paolo ha saputo audacemente incarnare pagando un prezzo troppo alto che non può essere ricondotto alla sola sparizione ma che è piuttosto costellato di incomprensioni, condanne e inimicizie e, nello stesso tempo di profezia, coraggio, determinazione, discernimento. In tutti rimane impressa una delle ultime scene che inquadrano il gesuita su un ponte sospeso su un precipizio nei pressi dell’antico monastero di Mar Musa al-Habashi (San Mosè l’Abissino, o l’Etiope). In quella sequenza è lo stesso padre Paolo, col sorriso sulle labbra a dire: “Questo ponticello così fragile è anche un simbolo. Costruire dei ponti spirituali e culturali che non servono per fare dei sincretismi ma per costruire delle possibilità di amicizia che siano una speranza per questa generazione”. Forse il messaggio è tutto qui e sgorga – martiriale – dal costato del coraggio di sporgersi al di là delle appartenenze e farsi dialogo e amicizia incarnati e vissuti. D’altra parte la creazione di quell’oasi tra le montagne deserte del Qalamun in Siria aveva proprio questo senso. Annullare le distanze e dare respiro alla speranza della fraternità tra due fedi che tendono a non riconoscersi e a confliggere. “Dialogo religioso – dirà il suo confratello gesuita padre Federico Lombardi – piuttosto che interreligioso perché non siamo dei gruppi che affermano la loro distinzione e cercano poi di incontrarsi fra di loro, ma siamo tutti davanti a Dio e, grazie a questo rapporto comune con Dio, capiamo anche la nostra fraternità”. Per questo il dialogo o l’incontro tra cristiani e musulmani realizzato da Paolo avviene nella forma di un monastero, di una contemplazione, di una preghiera. Bella e densa la testimonianza del teologo musulmano Adnane Mokrani nel documentario, per il quale “il dialogo è saper ascoltare, senza resistenze, senza pensare mentre ascolto, ovvero fare vuoto, dare spazio, accogliere e cercare di capire lentamente, con pazienza, con amore. L’amore è la condizione della conoscenza”. Credo che questa sia la migliore presentazione di padre Paolo Dall’Oglio che, afferrato totalmente da questa radicalità, ha saputo vivere mistica e politica, contemplazione e relazione umana. Ed è per questo che in Siria, in Iraq e in Italia, le comunità monastiche di al-Khalil (l’Amico di Dio) da lui fondate, vivono la regola secondo tre pilastri fondanti: la preghiera intesa come vita contemplativa personale e comunitaria, il lavoro manuale ispirato alla famiglia di Nazareth e l’ospitalità abramitica per realizzare l’armonia islamo-cristiana. Per dirla con un altro degli amici di Paolo intervistato nel corso del documentario, uno di quelli che ha fatto parte dei campi di lavoro per la ricostruzione del monastero siriano: “Alla fine dei conti il dialogo non è altro che un cantiere in cui si spostano pietre”. Ecco perché la visione di quel documentario non può lasciare indifferenti e non è centrato soltanto sulla persona di padre Dall’Oglio ma è una lanterna sulla speranza di futuro che risiede soltanto nell’apertura all’Altro, all’altro.