Politica, cultura e società
La crisi delle democrazie: un cuore ferito

Le democrazie contemporanee si trovano da vari anni in una situazione di crisi. Papa Francesco il 7 luglio 2024 a Trieste ha parlato della democrazia «come un cuore ferito» e ha individuato due aspetti essenziali della sua crisi nella «cultura dello scarto» a danno dei poveri e delle categorie più fragili e nel crollo della partecipazione, sottolineando che «la democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e anche dell’ecologia integrale».
MINACCE ESTERNE: L’AVANZATA DELL’AUTOCRAZIA
Le cause sono sia esogene sia endogene. Tra le prime viene additata da qualche intellettuale e da molti politici la crescita del numero degli Stati autocratici, che costringerebbe le democrazie a prepararsi a un inevitabile scontro, in Europa di dimensione analoga a quella vissuta negli anni Trenta del secolo scorso e sfociata nella Seconda guerra mondiale. Non vi è dubbio che la situazione è mutata rispetto alla diffusione della democrazia negli ultimi decenni del Novecento che ha spinto l’americano Fukuyama nel 1992 a parlare di «fine della storia», tesi ottimistica dalla quale in seguito ha preso le distanze. Il cambiamento all’inizio del nuovo millennio è attestato dalle più importanti organizzazioni internazionali che si occupano dello stato della democrazia nel mondo. Così per l’ultimo rapporto del 2024 dell’istituto Variety of Democracy (V-Dem), in dieci anni la popolazione mondiale che vive in una autocrazia è aumentata dal 48 al 71% e nel 2023 quarantadue Paesi hanno vissuto un processo di autocratizzazione. Tuttavia la teoria del conflitto che assume la guerra come orizzonte necessitato è discutibile e non affronta le cause profonde della crisi del mondo democratico.
Queste vanno rinvenute nella crescente incapacità di rispondere ai bisogni dell’umanità di un modello “occidentale”, caratterizzato da una globalizzazione sregolata, dall’unipolarismo fondato sull’egemonia degli Stati Uniti, dalle politiche neoliberiste e dalla netta prevalenza del capitalismo finanziario. Tale modello ha prodotto una crescita delle diseguaglianze, una povertà che, secondo il rapporto Oxfam del 2024, colpisce il 44% della popolazione mondiale, costituita da persone che vivono con meno di 6,85 dollari al giorno, cui si accompagnano una concentrazione smisurata della ricchezza nelle mani dell’1%, pari al 45 % di quella del pianeta e l’enorme crescita dei profitti delle multinazionali (come quelle farmaceutiche e delle armi) e dei giganti tecnologici, che gestiscono gran parte della comunicazione e sono in grado di esercitare un controllo sulla vita privata delle persone. A ciò va aggiunto lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale, che può essere un’opportunità positiva solo se viene utilizzata come un supporto al fattore umano e non come un suo sostituto e richiede a tal fine una adeguata regolamentazione, come ha cercato di fare per prima l’Unione Europea con l’IA Act, regolamento approvato dal Parlamento nel marzo 2024.
L’OMBRA DELLA GUERRA
A fronte di questa situazione gli Stati Uniti e la Nato alla ricerca di una nuova egemonia mondiale hanno fatto ricorso a una politica di interventi militari e di guerre cha dal 1999 in poi ha riguardato Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, producendo effetti nefasti: milioni di morti, instaurazione di regimi autoritari o in preda a conflitti fra tribù e correnti religiose, incentivazione del fondamentalismo islamico, emarginazione dell’Onu e degli organismi internazionali. Le ultime due guerre in Ucraina e nel Medio Oriente, hanno prodotto non certo la “vittoria” contro la Russia e la sicurezza di Israele, ma decine di migliaia di morti frutto di crimini di guerra e contro l’umanità perseguiti dalla Corte Penale Internazionale. Questa è stata sottoposta a un’operazione di delegittimazione, che ha visto aggiungere alle minacce di Putin le sanzioni contro i giudici e i loro familiari imposte da Trump, contro le quali si sono pronunciati settantanove Stati membri dell’Onu, tra i quali quelli aderenti alla Ue, ad eccezione di Repubblica Ceca, Ungheria e Italia, Paese che è stato uno dei fondatori della Corte il cui trattato istitutivo ha preso il nome di “Statuto di Roma”. Significativa è stata la recente dichiarazione dell’olandese Rutte, nuovo segretario generale della Nato, che ha insistito sulla necessità per gli Stati europei di adottare una «mentalità di guerra» anche a scapito della riduzione delle spese per sanità, istruzione e previdenza. In effetti le guerre odierne sono nel mondo la prima causa della fame, che potrebbe essere debellata con uno stanziamento di risorse infinitamente inferiore a quello varato per i conflitti e ancora di più per il “riarmo” che dovrebbe raggiungere secondo la richiesta di Trump il 5% del Pil dei Paesi membri della Nato. La mentalità di guerra, basata sulla gerarchia militare, la limitazione dei diritti, il ricorso al conflitto armato per la risoluzione di controversie internazionali, è esattamente l’opposto di quella democratica, fondata sul primato della politica e del pluralismo, sulla garanzia dei diritti e sulla ricerca della pace tra i popoli e di rapporti di cooperazione tra gli Stati. Solo riaffermando i propri principi e valori gli Stati democratici possono competere con quelli autocratici e favorire la diffusione della democrazia. Ma non possono certo pretendere di imporre la loro egemonia sul resto del mondo, progetto sbagliato e anche irrealistico, come dimostra la crescita del BRICS, alleanza economica e politica stipulata nel 2009 tra Brasile, Russia, India e Cina, cui si è aggiunto l’anno dopo il Sud Africa, e che ha ricevuto l’adesione di vari altri Stati fino a rappresentare quasi la metà della popolazione mondiale.
DEMOCRAZIE INDEBOLITE DALL’INTERNO
Vi sono poi le cause endogene della crisi delle democrazie, anche di quelle più consolidate, che sono di una triplice natura: economico-sociale, politica e istituzionale.
Il predominio di scelte economiche liberiste e del capitalismo finanziario ha determinato una situazione nella quale le scelte politiche in materia sono sempre più subordinate agli interessi dei monopoli e dei poteri oligarchici privati e ai condizionamenti di un mercato sregolato. Le conseguenze sono il ridimensionamento dello Stato sociale e quindi la più ridotta tutela dei diritti alla salute e all’istruzione, la crescita della povertà assoluta (che in Italia riguarda 5,7 milioni di persone), l’impoverimento del ceto medio, la crescita del lavoro povero che non consente a molti lavoratori di avere una retribuzione che assicuri «un’esistenza libera e dignitosa» (così l’art. 36 Cost. italiana), il precariato e la disoccupazione che colpiscono soprattutto i giovani e le donne. A fronte di ciò le diseguaglianze hanno raggiunto un livello intollerabile (negli Stati Uniti tra il 1970 e il 2010 il divario tra i salari più bassi e le retribuzioni più alte è passato da 1/40 a 1/400) e i pochi ricchi possiedono una percentuale sempre più alta della ricchezza nazionale (in Italia il 5% della popolazione ne detiene il 47, 7%). Il turbocapitalismo, basato sull’utilizzazione dei combustibili fossili, ha contribuito all’inquinamento dell’ambiente e al cambiamento climatico, che hanno prodotto la diffusione delle malattie e gravi disastri ecologici.
A livello sociale si è verificata una stratificazione sempre più complessa e articolata in conseguenza dell’affermarsi di nuovi lavori e di nuove modalità produttive, fortemente indotti dallo sviluppo tecnologico, la quale ha scompaginato la tradizionale divisione in classi e le identità collettive del passato e prodotto nuove forme di emarginazione sociale. In questo contesto gioca un ruolo importante il fenomeno della immigrazione, la quale pone delicati problemi di integrazione sociale e di sviluppo di rapporti culturali tra popoli e religioni, che impongono agli Stati democratici la ricerca di adeguate politiche di programmazione dei flussi migratori e di accoglienza. Ciò richiederebbe la condivisione di una politica per i migranti tra i Paesi democratici, che è bloccata dal prevalere di interessi egoistici dei singoli Stati e da posizioni di chiusura nazionaliste e xenofobe, come quelle espresse da Trump e da vari governi, che erigono muri e impongono la deportazione dei migranti, e dalla propaganda di movimenti politici razzisti i quali indicano negli immigrati il nemico da combattere e contrappongono i “penultimi”, le fasce sociali impoverite, agli “ultimi”.
Il sistema politico è caratterizzato dalla crisi dei partiti di massa, sostituiti da partiti privi di solidi riferimenti ideali e sociali e appiattiti sulla gestione delle istituzioni, di tipo oligarchico e leaderistico, fino alla formazione di “partiti personali” posti al servizio di un leader. I partiti tradizionali, conservatori e socialdemocratici, specie quando si trovano al governo tendono ad assomigliarsi sulle politiche economiche e sociali, sul contrasto all’immigrazione, sul ricorso alla guerra e al riarmo. Ciò da un lato contribuisce a ridurre la partecipazione alla politica di ampi strati sociali impoveriti, dalla’altro favorisce la crescita di partiti di estrema destra, ultranazionalisti, integralisti e illiberali, come dimostra in Europa la loro presenza nei governi di vari Paesi (Ungheria, Italia, Finlandia, Svezia e Belgio), e negli Stati Uniti la rielezione alla presidenza di Trump.
IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA
La crisi della politica ha contribuito alla trasformazione delle democrazie in «postdemocrazie» (secondo la celebre definizione di Crouch del 2003), caratterizzate da una prevalenza della componente elitaria ed oligarchica, che attribuisce un ruolo centrale agli interessi delle grandi aziende e delle bigh tech, fino a favorire l’ascesa a ruoli di governo di detentori di importanti quote del potere economico, mediatico e tecnologico.
Il funzionamento delle istituzioni è afflitto da due gravi problemi. Il primo è la contrazione costante della partecipazione popolare che riduce la legittimazione del Parlamento e del Governo, espressione di una minoranza del corpo elettorale. Il secondo problema è la crisi dei Parlamenti, la cui potestà legislativa si riduce spesso alla ratifica degli atti governativi e quella di controllo è limitata e solo eccezionalmente può far valere la responsabilià politca del Governo. In tale contesto emerge in molti Paesi la teoria della “democrazia decidente” o “governante” che è alternativa alla “democrazia costituzionale”, fondata sulla legittimazione del conflitto basato su regole democratiche, sull’assunzione di decisioni mediante procedure rispettose del pluralismo e della dialettica politico-parlmentare, sul ruolo degli organi di garanzia. Ne deriva una concezione di forma di governo incentrata sull’elezione popolare di un Capo dell’esecutivo che adotta le decisioni fondamentali ed è politicamente irresponsabile, come avviene nei sistemi presidenziali degli Stati Uniti e della Francia il cui malfunzionamento sta mettendo in gioco il futuro della democrazia. Ancora peggio avverrebbe in Italia se fosse approvata la proposta di Premierato fondata sull’elezione popolare del Presidente del Consiglio, che dominerebbe su un presidente della Repubblica svuotato di poteri essenziali e su un Parlamento eletto al traino con un premio di maggioranza alla coalizione collegata al premier e sottoponibile allo scioglimento anticipato da questi voluto. Vengono quindi messi in discussione il principio della separazione e dell’equilibrio fra i poteri e il ruolo dei poteri di garanzia, come la magistratura e la Corte costituzionale, cui si accompagna la delegittimazione dei giudici sovranazionali e internazionali in nome di un sovranismo nazionalistico.
La risposta alla crisi delle democrazie deve essere basata su politiche di pace e di cooperazione, sul perseguimento di un nuovo modello di sviluppo fondato sulla tutela del lavoro, della salute, dell’istruzione e dell’ambiente, su partiti rinnovati, portatori di visioni ideali e collegati alla società, sul rilancio di una democrazia parlamentare rinnovata e sul ricorso a sistemi elettorali proporzionali che consentano all’elettore di scegliere libaramente gli eletti.