Il sangue mai lavato di Francesco Marcone

Daniela Marcone
Daniela Marcone

Una delle mafie più crudeli e spietate, quella che opera nel territorio di Foggia, trent’anni fa si è macchiata di un delitto che rimane tutt’ora irrisolto. Il 31 marzo 1995, due colpi di pistola spezzarono la vita di Francesco Marcone, il direttore dell’Ufficio del Registro. Marcone, dirigente del Ministero delle Finanze, fu ucciso per le sue denunce incentrate su varie irregolarità riscontrate in quegli uffici. Pochi giorni prima di morire, il 22 marzo, inviò un esposto alla Procura della Repubblica contro truffe perpetrate da ignoti che garantivano, dietro pagamento, il disbrigo di alcune pratiche.

Oggi, a distanza di trent’anni, un documentario racconta la storia umana e professionale di quest’uomo dello Stato che non ha ceduto al ricatto della corruzione. Il sangue mai lavato, per la regia di Luciano Toriello, è un’indagine incalzante su un delitto spietato, avvolto in un intrigo di ombre e misteri, in cui la legge e la verità hanno percorso, spesso, strade opposte. La battaglia di verità e giustizia condotta dalla famiglia Marcone è il filo rosso che tiene assieme aspetti pubblici e privati, intimi e politici. A trent’anni dalla sua morte, il tentativo è stato quello di unire i puntini di questa storia intricata che non conosce ancora una parola definitiva di verità e giustizia”, spiega Toriello in occasione dell’anteprima al Bif&st di Bari.

Rocca, in occasione dell’uscita del documentario, ospita un dialogo fra Daniela Marcone, figlia di Francesco, responsabile del settore memoria di Libera e protagonista di questo lavoro; e Felice Sblendorio, giornalista e autore del documentario.

Trent’anni possono essere un tempo lunghissimo o breve. Thomas Mann ne La montagna incantata” scriveva: Lunghi periodi di tempo si restringono in modo da far paura; se un giorno è come tutti, tutti sono come uno solo”. Che tempo è stato dalla morte di suo padre?

È sempre difficile, in generale, definire il tempo. Dopo trent’anni anni, pesano moltissimo le sconfitte e le lacune giudiziarie. La ricerca di verità e giustizia per la morte di mio padre non è stata mossa da un desiderio di vendetta, ma mi ha aiutato a ricostruire il tempo vissuto con lui. Quando è morto la nostra famiglia è stata isolata. Quei primi momenti, che hanno determinato ferite importanti, sono stati difficili da vivere. Mi ha salvata solamente l’amore e l’affetto che provavo nei suoi confronti. Non era un padre facile: mi richiamava all’odine, pretendeva che fossi una cittadina responsabile, sempre presente e disponibile per l’altro. Quando è stato ucciso sono stata quasi costretta, seguendo i suoi insegnamenti, a percorrere un cammino di verità.

Quella contro il tempo è stata la battaglia più complessa?

Il tempo è stato il mio peggior nemico. Dalla morte di mio padre ho vissuto otto lunghissimi mesi di silenzio. Non ci voleva ascoltare nessuno, così la mia famiglia ha sempre combattuto affinché quel tempo si accorciasse, ma non andò così. Ci sono delle domande che mi distruggono ancora. Perché dovettero passare otto mesi prima che ascoltassero i familiari della vittima? Perché non si è mossa una macchina importante per l’omicidio di un uomo dello Stato? Oggi le famiglie delle vittime innocenti sono le prime a essere ascoltate, ma all’epoca non fu così. Quel distacco, all’esterno, venne percepito come una divisione: da una parte c’era lo Stato e dall’altra noi, da soli.

Com’è cambiata la sua vita dopo quel giorno?

I sogni che avevo si sono spezzati: da quel 31 marzo 1995 non sono più riuscita a sognare. Non ho realizzato tanti miei progetti perché non potevo girare la testa rispetto a quello che era successo: dovevo prendermi cura di mio padre. Io l’ho visto riverso sulle scale e, per l’orrore, quasi non l’ho riconosciuto. Vederlo senza vita ha rotto per sempre qualcosa dentro di me. Mio padre mi ha insegnato la profondità del rapporto con l’altro, ma nei primi anni vedevo nemici dappertutto e credevo che chiunque potesse essere il suo assassino, chiunque potesse ancora farci del male. In molti mi hanno consigliato di continuare la mia vita, addirittura qualcuno mi ha detto che non l’avrei fatto riposare in pace a causa di questa mia ossessiva ricerca della verità. L’ambiguità di quelle persone fu dolorosa.

Nel 1998, a distanza di tre anni dal delitto, l’on. Elio Veltri alla Camera dei Deputati denunciò: “È opinione comune a Foggia che l’assassinio nasce nell’ambiente di lavoro, e che la magistratura da una parte, non si sa per inesperienza o per altro, e il Ministero delle Finanze dall’altra, non abbiano fatto quanto era necessario per conoscere la verità”. A distanza di trent’anni è un giudizio duro o realistico?

Io parto sempre dai fatti e i fatti parlano chiaro: in otto mesi i familiari e i colleghi non sono stati ascoltati. In quel tempo può essere accaduto di tutto. E qui ritornano vecchie domande: perché le segnalazioni di mio padre sono state verificate da qualcuno di interno che, negli anni, fu indagato per quell’omicidio? Perché il G.i.c.o. (Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata) della Guardia di Finanza intervenne così tardi? Le indagini furono fatte, ma rileggendo tutto sembra che manchi sempre l’anello di congiunzione fra una cosa e l’altra, fra quello che unisce e fa comprendere. L’ultima archiviazione scrive una pagina importante per la città perché afferma chiaramente che la parte sana, o quella che avrebbe dovuto essere tale, non ha collaborato.

Suo padre perché fu ucciso?

Mio padre è morto per il suo lavoro: dal 1992 al 1995 si è occupato della città di Foggia, di tassare atti importanti, delle compravendite immobiliari, quindi terreni su cui edificare, e delle costituzioni di società che avevano il fine dell’edilizia e dell’imprenditoria. Tra gli atti che sono passati sotto la sua visione ve ne erano alcuni scorretti. Lui leggeva tutto come un tecnico perché era un funzionario del Ministero, non era un magistrato. Se l’atto era sbagliato rimandava il calcolo delle imposte al reparto, con la certezza che la persona che aveva prodotto il calcolo doveva essere spostata perché ricorreva frequentemente in quel tipo di errori. Il G.i.c.o. lo dirà molto bene: ci sono degli spostamenti di personale effettuati da mio padre che erano utili a neutralizzare dei movimenti opachi. Il suo denunciare fu un gesto di responsabilità che, a distanza di tempo, mi chiedo perché rimase solitario e isolato.

È stato ucciso per qualcosa che aveva già fatto o che avrebbe potuto fare?

Sono convinta che sia stato ucciso per qualcosa che stava per fare. Non è stata una vendetta: è stato ucciso perché non doveva continuare la sua attività di denuncia. Mio padre stava dando fastidio a molti, compromettendo un giro di affari poco chiaro.

Quante persone portano sulle spalle il peso morale di questo delitto?

Tantissime. Molti hanno taciuto e hanno continuato a fare la loro vita, augurandosi che cadesse il buio dell’indifferenza su questo caso. Anche a livello istituzionale ci furono gravi lacune, cose poco chiare soprattutto sull’assenza di un’indagine interna richiesta al Ministero delle Finanze, sollecitata trasversalmente anche da alcuni parlamentari. Si chiedeva ai Ministri delle Finanze e della Giustizia l’esito di quelle indagini. Come mai muore un servitore dello Stato per motivi collegati al suo lavoro e il suo ufficio non viene setacciato da capo a fondo? Una cosa molto strana, soprattutto se si pensa che alcune figure apicali di quella struttura furono indagate per l’omicidio di mio padre. Anche i Ministri che incontrai capirono la difficoltà del caso.

L’indifferenza di molti quanto ha pesato sulla mancata verità?

Ha pesato tanto perché credo ci sia stata una sterminata parte di indifferenti attorno a noi. L’indifferente, alla fine, è sempre un colpevole. Sulla loro indifferenza si è basato per anni il dominio assoluto della mafia. Oggi, però, le cose stanno cambiando: mentre prima c’era il silenzio, oggi molti imprenditori si stanno facendo avanti per paura che una città come Foggia crolli definitivamente sotto l’assedio del dominio mafioso. In questo quadro si è innestata anche una carenza di letture precise da parte dello Stato che sta cominciando a fare un lavoro rivoluzionario solo da qualche tempo.

In territori così complessi la memoria diventa un elemento prezioso.

La memoria serve a colmare le lacune che la storia ci consegna e serve per riscrivere, contestualizzare e per non dissipare il sacrificio di tutte quelle persone che sono morte sotto i colpi della criminalità organizzata e dell’oblio.

La sua storia personale è legata a doppio filo a Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti nata pochi mesi prima quel tragico 31 marzo 1995. In questi anni c’è stata una componente spirituale, o religiosa, che l’ha aiutata a sopravvivere al dolore?

Grazie a Libera, e alle tante persone incontrate in questi anni, ho riacquistato fiducia nell’uomo e nell’umanità. Io sono riuscita a elaborare quel dolore fino a un certo punto. Quando parlo di mio padre sono costretta a compiere un’azione di astrazione, altrimenti sprofondo in un buco nero. La mia elaborazione del lutto è maturata grazie a una mia spiritualità, ma non so definire quanto sia cattolica.

Nella sua vita c’è solamente un bambino, il figlio di suo fratello Paolo che porta il nome e il cognome di vostro padre. Sarà mai libero dalla tragedia che quel nome porta con sé?

Quel nome ricorda nostro padre. Spero che un giorno mio nipote racconti questa storia, ma senza pesi. L’abbiamo protetto al massimo affinché non diventi il figlio di una storia di diversità. Io e mio fratello abbiamo compreso a spese nostre che tutto quello che hai sognato, tutto quello che hai progettato per la tua vita, in un solo minuto si può spezzare per sempre, quindi vogliamo che questo ragazzo sia libero. Ricordare una persona cara, spinta in maniera così violenta alla morte, con il dono della vita, credo sia uno dei modi più belli per tenerla ancora accanto a noi.

Lei non è andata mai via da Foggia. Si dice che il tempo della vecchiaia sia quello dei sogni e dei desideri da realizzare: vorrebbe invecchiare lì?

Non saprei. Ho pensato spesso di andare via da Foggia, ma poi sono restata perché qui è come se ci fosse qualcosa di incompiuto. Andandomene via avrei spezzato per sempre il legame con mio padre. Oggi vivo ancora a Foggia soprattutto per ricostruire quello che ci è successo: il passato, se raccontato bene, può riscattare il nostro presente e, forse, proteggere il nostro futuro.

Trent’anni dopo, che donna è diventata?

Mi sento una donna che ha perso tantissimo. Mi ha migliorato solo l’incontro con gli altri, ma alla fine sento di aver perso tanto. Eppure, il cammino di questi trent’anni mi affida un nuovo orizzonte di speranza, in cui proprio la storia di mio padre e la mia stessa, come quella di tante persone rese vittima dalla violenza criminale, siano da sprone a un’azione collettiva per la rivendicazione, nel nostro Paese, di un vero e proprio “Diritto alla verità”.

A casa conserva gli occhiali di suo padre ancora sporchi di sangue. Perché ha deciso di non lavarli?

Per conservare il suo ultimo sguardo sul mondo. Ancora oggi, a distanza di trent’anni, credo che quel sangue serva ancora. Fin quando non sapremo la verità sulla sua morte, quel sangue sarà lì. A testimonianza.