Politica italiana
Il referendum dell’8 e 9 Giugno

Il prossimo 8 e 9 giugno il popolo italiano sarà chiamato ad esprimersi su cinque quesiti referendari, quattro dei quali promossi dalla Cgil, il quinto da un gruppo di forze politiche insieme ad alcune associazioni attive nella difesa dei diritti dei migranti, e tutti accomunati da un’idea di fondo: restituire diritti sociali e civili dove negli ultimi anni si è prodotto solo sfruttamento, precarietà, insicurezza, «cultura dello scarto». Il lavoro precario, povero, senza tutele; la cittadinanza negata, che diventa terreno fertile per nuove forme di emarginazione e subordinazione.
I CINQUE QUESITI
I primi quattro quesiti, quelli della Cgil, affrontano direttamente i nodi del lavoro contemporaneo, colpito da decenni di flessibilità al ribasso e dagli effetti nefasti dell’ideologia neoliberista, nel frattempo diventata egemone. Il primo riguarda la disciplina dei licenziamenti illegittimi nei «contratti a tutele crescenti», ossia quelli a tempo indeterminato sottoscritti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act (2015). La normativa attuale prevede che, anche in caso di licenziamento senza giusta causa, il lavoratore abbia diritto solo a un’indennità economica, eliminando il reintegro nel posto di lavoro, per come prevedeva l’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Il referendum propone di abrogare questa norma e ripristinare il diritto al reintegro per i licenziamenti illegittimi: una difesa elementare della giustizia nei luoghi di lavoro.
Il secondo quesito tocca un altro punto dolente: le piccole imprese sotto i 15 dipendenti, che oggi godono di una normativa più favorevole al datore di lavoro in caso di licenziamento. Si propone di eliminare questa disparità, garantendo anche ai lavoratori delle piccole aziende un trattamento dignitoso e paritario rispetto ai colleghi delle grandi imprese, in ossequio al principio di uguaglianza – «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge» – sancito dalla Costituzione.
Il terzo quesito va invece al cuore del problema della precarietà: i contratti a termine. La legge attuale consente di assumere a tempo determinato fino a 12 mesi senza alcuna causale e prevede la possibilità di proroghe e rinnovi per un massimo di 24 mesi. La proposta referendaria vuole eliminare le norme che rendono così facile e arbitraria la precarizzazione, restituendo al contratto a tempo indeterminato la sua centralità costituzionale.
Il quarto quesito è riferito ad una questione spesso trascurata, ma cruciale ai fini della sicurezza sui luoghi di lavoro: quella degli appalti e della «responsabilità solidale». Oggi, in caso di infortunio sul lavoro, il committente può essere sollevato dalla responsabilità civile se l’incidente deriva da «rischi specifici» dell’attività appaltata (quelli indicati dal Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro, come il rischio da rumore o vibrazioni, il rischio chimico, il rischio da movimentazione manuale dei carichi o da videoterminale, il rischio incendio). Il referendum vuole abrogare questa esenzione, ristabilendo un principio semplice: chi trae profitto da un’attività deve rispondere anche dei danni che ne derivano. In un Paese in cui ogni anno più di mille persone muoiono sul lavoro, non è certo un dettaglio (nel 2024 ben 1.090 persone hanno perso la vita sul posto di lavoro).
Il quinto quesito riguarda, infine, la cittadinanza. Oggi uno straniero extracomunitario deve risiedere legalmente in Italia per dieci anni prima di poter presentare domanda di cittadinanza. Il quesito propone di dimezzare questo periodo a cinque anni, allineando l’Italia agli standard europei e riconoscendo a milioni di persone la possibilità di essere finalmente parte, a pieno titolo, della comunità nazionale. Una battaglia di civiltà. Che non è slegata dai temi che contraddistinguono i quesiti proposti dal sindacato. Perché lo sfruttamento del lavoro migrante — nei campi, nei cantieri, nella logistica — è alimentato proprio dalla mancanza di diritti. L’assenza di cittadinanza rende i lavoratori migranti più ricattabili, più esposti alla violenza, più sfruttabili. Avere la cittadinanza significa poter rivendicare un contratto, denunciare un abuso, partecipare alla vita politica e sindacale. Senza cittadinanza, anche il diritto al lavoro diventa un lusso. Per questo i cinque quesiti referendari, pur diversi, parlano lo stesso linguaggio: quello della dignità e dell’eguaglianza.
IL RAPPORTO PERVERSO TRA PRECARIETÀ, BASSI SALARI E POVERTÀ
Questa consultazione, peraltro, arriva in un Paese dove il 23% dei lavoratori ha un contratto a termine, dove i salari reali sono tornati ai livelli di trent’anni fa, dove quasi un milione di individui non riesce a tirare avanti pur lavorando, dove la precarietà non è un passaggio, ma una condizione strutturale. In questo quadro, il Jobs Act e le successive riforme del mercato del lavoro non hanno prodotto né occupazione stabile né sviluppo. Hanno solo legalizzato l’insicurezza, che da lavorativa diventa esistenziale.
L’argomento che si sente spesso — «meglio un lavoro precario che niente» — è una resa culturale prima ancora che politica. Come se la lotta per il lavoro degno fosse una pretesa economicamente insostenibile. Come se i diritti fossero un ostacolo alla crescita. Ma i numeri parlano chiaro: dove il lavoro è stabile, crescono anche i consumi, l’innovazione, la coesione sociale. Dove è precario, aumentano la povertà, l’emigrazione giovanile, la fragilità. E le morti sul lavoro, che sono l’indicatore più tragico della qualità del nostro modello produttivo.
I referendum dell’8 e 9 giugno non sono dunque un rituale giuridico né un esercizio di nostalgia. Sono una mobilitazione democratica per restituire un senso alla parola “lavoro”, come la intende l’articolo 1 della Costituzione: fondamento della Repubblica, non merce sacrificabile sull’altare del profitto. Possono rappresentare una spinta per invertire la rotta, per costruire un nuovo compromesso sociale fondato sui diritti, sull’equità, sull’inclusione. Per questo servono informazione, partecipazione, mobilitazione. Per questo non si può restare a guardare. Il silenzio dei grandi media, l’ostilità del governo – Fratelli d’Italia in particolare ha dato indicazione di astensione «come forma di dissenso» –, l’ambiguità di settori dell’opposizione non devono scoraggiare. Valgano le parole pronunciate da papa Francesco qualche anno fa: «Tutti noi dobbiamo lottare per far sì che il lavoro sia un’istanza di umanizzazione e di futuro». Parole che racchiudono un’intera visione dell’economia e della società. D’altra parte, le oltre 700mila firme raccolte per questi referendum dicono che una parte del Paese vuole cambiare, vuole contare, vuole un futuro diverso. Bisogna fare in modo che questa domanda di cambiamento non resti inascoltata.