Il Pd e l’altra sinistra

Dopo la pesante e prevista disfatta alle elezioni politiche di Settembre 2022, l’attenzione dell’opinione pubblica e della variegata area dei militanti della sinistra ufficiale si è concentrata, comprensibilmente, sul congresso del Pd e sul ricambio della sua dirigenza. Il congresso, per la prima volta nella vita del partito, ha consegnato un verdetto duplice, frutto possibile di uno statuto assurdo rispetto a qualunque razionalità politica, oltre che alla prassi di ogni altro partito a qualsivoglia latitudine del pianeta: la vittoria di Stefano Bonaccini tra gli iscritti e, nel voto aperto anche ai non iscritti, l’affermazione della seconda classificata nella corsa interna. La sorpresa ha spinto la lettura mediatica sul «nuovo Pd».
Nelle righe a seguire, provo prima a misurare le potenzialità della «novità» nella sinistra che c’è e, poi, ad argomentare le ragioni per costruire la sinistra che ancora non c’è, da affiancare come partner complementare e sinergico al Pd e alle altre sinistre ufficiali, per arrivare ad una proposta politica adeguata e, quindi, credibile e competitiva con l’offerta culturale e politica della destra.

La sinistra che c’è

La sinistra che c’è. L’elezione di Elly Schlein a segretaria del Pd segna, in termini simbolici, una discontinuità. La sua percepita estraneità all’establishment interno – donna, giovane, gender-fluid, cosmopolita, ex-fuoriuscita, di movimento, radical sul versante dei diritti civili, istintivamente pacifista – ha generato naturalmente identificazione dalle maggiori constituencies elettorali del Pd e della «sinistra ufficiale» (decisivo al fine della sua affermazione alle «primarie» il voto degli elettori del Partito Radicale, di Verdi europei e Sinistra Italiana): dirigenti, impiegati medio alti del settore privato e pubblico, professionisti della cultura e dell’entertainment, studenti universitari e liceali (in sintesi, le figure sociali approssimate dalle caricature mediatiche con i residenti delle Ztl). Le ha consentito di raccogliere la domanda di rottamazione del «partito degli amministratori», segnato dalla complicità con il renzismo, rattrappito nei Palazzi di governo, occupati spesso più come fine che come casematte per conquiste economiche, sociali, ambientali. Le ha permesso di distinguersi dal candidato di punta anche sulla bruciante ferita dell’alleanza con il M5S, cardine imprescindibile per tornare a giocare sul campo elettorale, ma sacrificata da Enrico Letta sull’altare dell’appiattimento Atlantico. Tuttavia, le basi culturali e sociali della sinistra ufficiale intercettata da Elly Schlein definiscono anche i confini di espansione del Pd. Per due ragioni. Prima ragione. I principali riferimenti elettorali della sinistra ufficiale sono, non soltanto culturalmente ed economicamente ma quasi antropologicamente, altro rispetto alle sofferenti periferie sociali finite nel M5S, a destra e, sempre più, nell’astensione. Qui, si alza una barriera poiché l’agenda di un partito è definita in funzione dei rappresentati: se quelli che rappresenti sono lontani da quelli che stanno male, difficilmente comprendi il linguaggio, le paure, le ansie di quest’ultimi e ti concentri sulle risposte da dargli. Seconda ragione. I principali riferimenti elettorali della sinistra ufficiale sono nutriti da un modo di essere del capitalismo – la regolazione neo-liberista dei movimenti globali di capitali, merci, servizi e persone – strutturalmente esclusiva e centrifuga, opposta a quella inclusiva e centripeta imposta dal movimento operaio attraverso le leve agibili dentro i confini nazionali. Qui, invece, incrociamo un dato decisivo per comprendere le cause dell’insufficienza della sinistra che c’è e la necessità di costruire la sinistra che non c’è. La configurazione del capitalismo dominante nell’ultimo trentennio, incentrata sull’unipolarismo Usa e propagandata subito dopo l’89-91 dalla narrazione della «fine della storia e l’ultimo uomo» (il titolo completo del best seller di Francis Fukuyama) è diventata insostenibile: alimenta la rivolta delle classi medie spiaggiate, mette a rischio la sopravvivenza dell’umano, da forza geo-politica e militare, oltre che economica, ai Brics. Il primo effetto è evidente almeno dal 2016, anno del referendum per la Brexit e dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Gli altri effetti si manifestano anche nei due ultimi eventi eccezionali: il Covid e le misure attuate per contenerlo e, poi, la guerra in Ucraina e le risposte politiche, economiche e militari all’aggressione russa. Anzi, questi ultimi sono anche fattori di accelerazione della correzione dei mercati globali e dell’instabile ordine internazionale. In particolare, la guerra svela l’orientamento strategico degli Stati europei dell’ex impero sovietico e l’incapacità dei principali Stati della «vecchia Europa» di esprimere una qualche autonomia dal comando Nato. Strappa, pertanto, il velo dei sogni sull’impraticabilità degli Stati Uniti d’Europa.

Tutto cambia

Insomma, tutto cambia. Matura il disincanto, la delusione, la rabbia verso il progressismo inteso come miglioramento naturale delle sorti dell’umanità. Ritorna la storia. La chiave interpretativa della stagione in corso diventa la protezione sociale ed identitaria. Riemerge prepotente la richiesta di primato dell’etica e della Politica sull’economia e sull’innovazione tecnologica. Ma nella fase in corso, il Pd, a maggior ragione a guida Schlein, fatica ad entrare in sintonia con l’oggi. Perché è nato, troppo tardi, sull’impianto di quel sottoprodotto dell’egemonia neo-liberista che è stata la «Terza via» di Bill Clinton, Tony Blair, Gerhard Schroeder, i campioni de «L’Ulivo mondiale», già fuori corso quando Walter Veltroni li celebrava per candidarsi a primo leader del Pd al Lingotto nel 2007. Perché è nato, programmaticamente, senza radici nelle culture politiche dei suoi principali soci fondatori: «partito leggero» privo di luoghi di definizione di una visione autonoma e di strumenti per un minimo di «contro-informazione» e formazione politica per i quadri. Un Pd senza storia, nel ritorno della storia, sostenuto da una generica ideologia liberal-democratico progressista affidata, dopo lo smembramento e l’omologazione consumistica del movimento operaio, al primato del mercato, considerato condizione naturale. Un’ideologia cosmopolita, tendenzialmente «no border», religiosamente federalista sul versante europeo. Orientata dall’individualismo proprietario (quindi pro maternità surrogata) e dal transumanesimo (quindi per il gender fluid) nella rivendicazione dei diritti civili. Sul terreno economico, imperniata sul dogma del primato della concorrenza (seguace della Direttiva Bolkestein) e delle banche centrali. Nella politica estera, tendente ad eticizzare i conflitti (buoni versus cattivi). Di fronte all’evidente impoverimento del lavoro e alle brucianti disuguaglianze, rassegnata ad affrontare la «questione sociale» con l’armamentario liberale di detassazione, de-contribuzione, Zes e, ultimo, Reddito di Cittadinanza e salario minimo, sbandierato come vessillo della sinistra. Per la conversione ecologica, radicale sul versante teorico, comprensiva nell’amministrazione. Militante di un antifascismo esclusivo e praticato, ad ogni stormir di fronda violenta o autoritaria, come conforto identitario e (illusoria) scorciatoia per la conquista della maggioranza. Infine, portatrice di un femminismo ridotto a pari opportuntà di genere (nonostante consideri i generi liquefatti). Un Pd, va sottolineato, comunque pilastro della sinistra ufficiale: un’area composita, da +Europa, Italia Viva e Azione, ai Verdi e, in molti aspetti, alle sinistre radicali. Un’area erede delle sinistre storiche, riprodottasi, dopo il ’68, in radicale discontinuità di cultura politica con le sue originarie correnti (comunista, socialista, cattolico sociale e cattolico liberale), consolidatasi dopo ’89-’91 (abbattimento del Muro di Berlino e dissolvimento dell’Unione Sovietica) ed il ’92 («Tangentopoli») e poi, come ricordato, con il Lingotto. In sintesi, un Pd è essenziale, ma insufficiente.

Necessità di un’altra sinistra

In tale contesto, è utile riconoscere anche la necessità di un’altra sinistra, in relazione sinergica con la sinistra che c’è (utilizzo il termine «sinistra» in senso lato). Mi riferisco all’Italia, ma il discorso vale anche per la dimensione europea e degli Usa. Infatti, «l’altra sinistra» è da costruire quasi ovunque. È forte in Francia con il movimento di Jean Luc Melenchon. Vive, in misura minore, in Germania nella componente della Linke di Sahra Wagenknecht. Cresce dall’altra parte dell’Atlantico con le truppe di Bernie Sanders e le misure da «America first» di Biden. In Italia, ha una presenza embrionale, istintiva e contrastata nel M5S. Per costruirla e intercettare l’astensione sempre più di classe, va messo a punto, innanzitutto, un altro paradigma. L’altra sinistra è inter-nazionalista. Nazione e Patria, come pure famiglia, dimensioni imprescindibili della persona-comunità in una stagione di spaesamento identitario e spiaggiamento economico, non sono «brutte parole» della destra, ma il lessico recuperato nel senso scritto nella nostra Costituzione (rispettivamente art 9-67-98, art 52-59, art 29-30-31-36). Quindi, sono luoghi di appartenenza diversi, aperti e solidali. Sono le basi, imprescindibili, per fermare l’autonomia differenziata e per cooperare con le altre Nazioni e le altre Patrie ad ognuna delle quali «appartiene» uno specifico popolo di un continente plurale, irriducibile ad un unico popolo europeo, obiettivo dei Federalisti. Qui, il riferimento teorico da coltivare è la «demoicracy» assente dal dibattito politico italiano, soffocato nella morsa «europeisti» e «sovranisti». Nelle relazioni con gli Stati Uniti e la Nato, l’altra sinistra persegue, con ostinata autonomia, un atlantismo adulto, realista, per un ordine internazionale multipolare e multilaterale. Sul versante economico, riconosce il «controlimite» sociale incardinato nella nostra Carta, sovraordinato, come sancito anche dalla Corte Costituzionale, alle norme dell’Ue. Quindi, è «no Bolkestein». RdC e salario minimo sono trincee per resistere all’aggressione sociale degli ultimi decenni, ma l’obiettivo rimane la piena e buona occupazione da perseguire attraverso filtri protettivi applicati alle relazioni di mercato e investimenti trainati dall’azione pubblica. Per le migrazioni, oltre all’imprescindibile salvataggio delle vite, connette l’accoglienza alla capacità di integrazione e riapre il libro della cooperazione internazionale per garantire il diritto a non emigrare. Per la conversione ecologica, le valutazioni di impatto ambientale misurano anche l’impatto sociale. L’antifascismo è vissuto come denominatore comune della politica, proprio per le peculiarità della nostra destra. Infine, nel cammino dei diritti civili, l’altra sinistra parte dall’autodeterminazione della persona e in particolare della donna e segue la rotta umanista segnata da argini invalicabili: da un lato, no all’acquisto della vita su un catalogo dopo aver affittato una madre; dall’altro, no al disconoscimento sessuale dell’umano, nel pieno rispetto e protezione per le persone omosessuali o transessuali e per le loro unioni. Qui, il femminismo è riconoscimento del potenziale femminile per scardinare il dominio dell’economico e le connesse gerarchie di potere. In conclusione, la sfida più impegnativa di fronte alle leadership culturali, politiche e sociali dell’area Pd-M5S è mettere a punto il paradigma inter-nazionalista ed umanista per l’altra sinistra. È la sfida per ritrovare connessione sentimentale con le periferie sociali, rispondere alle loro domande di protezione economica ed identitaria e allargarne la rappresentanza. Così, insieme, le due sinistre possono superare le destre.